Interview with Annamaria De Manzano Vici
Title
Interview with Annamaria De Manzano Vici
Description
Annamaria De Manzano Vici recalls her wartime childhood in Trieste and describes the struggle of her all female family, coping with fear, hunger, and difficulties in finding food supplies. She remembers the run to the public shelter and the terror felt after a bombing that destroyed her house and caused her grandmother to die from a heart attack. She gives a brief account of a few war episodes: a soldier she met after the beginning of the curfew; the return of an uncle after a period of imprisonment in a work camp; Tito’s men invading the city after the end of the war. Annamaria highlights her deep commitment to pacifism as the only way to deal with human conflicts. She considers Allied pilots to be ‘robots’ driven by someone else’s will.
Creator
Date
2017-09-05
Coverage
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00:34:23 audio recording
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Identifier
AViciAdM170905
PViciAdM1701
Transcription
PS: Signora Annamaria Vici mi può raccontare un po’ del suo nucleo familiare e del, dove innanzitutto dov’è nata, quando è nata e un po’ del suo nucleo familiare.
AV: Allora, sono nata a Trieste il 31 dicembre 1939, quindi in coincidenza perfettamente con l’inizio dela seconda guerra mondiale, l’ho vissuta tutta. Naturalmente dei primi anni eh non ho ricordi se, partiamo dal 1943 quando io avevo tre anni. Allora abitavo con la, con la mia mamma, la nonna, due zie, il mio fratellino più piccolo e una cugina di qualche anno più grande. Eravamo un bel numero di persone che vivevano tranquillamente assieme. Tutta questa tranquillità sparì, sempre di più, e creando un un’ombra che gravava su di noi e noi anche se bambini percepivamo benissimo. E i miei ricordi forse anche alcuni molto nitidi e precisi, con un’immagine chiara di quello che avevo vissuto ormai quasi tre quarti di secolo fa. Erano ricordi legati tutti a una situazione che era diventata pesante, pesante per la mancanza di cibo, pesante per le paure che provavamo ehm in per vari motivi, noi bambini in particolare al tempo del, del coprifuoco. Avevamo vissuto quelle sere con grande paura e timore perché addormentarsi da soli in una stanza buia non era certo cosa piacevole e facile da superare. C’era poi una costante atmosfera pesante di lunghe attese. Bisognava attendere per vari motivi, noi bimbi piccoli avevamo fame e ci lamentavamo più di una volta, e alle nostre domande di mangiare qualcosa ci veniva immancabile la risposta: ‘Dovete aspettare’ ‘Aspettare cosa?’. Aspettare l’ora di cena o l’ora di pranzo per mangiare una minestrina insipida che certamente non ci saziava del tutto. Bisognava spettare, aspettare con la mamma o con la zia nei negozi dove si andava con una tessera annonaria a prendere quel poco di cibo che si trovava. Dal ’43 in poi infatti i generi alimentari nei negozi eh anche se di prima necessità avevano, erano pochi, erano spariti e si faceva difficoltà enorme a trovare qualche cosa, anche avendo magari un po’ di soldi per comprarla, ma la roba non c’era. Fu così che, a poco più di tre anni feci la mia prima gita in Carso, una gita motivata proprio da questo, cioè dalla ricerca del cibo. Noi, come tante altre famiglie triestine, avevamo da prima della guerra e poi nei primi anni, il latte le uova fresche portate dalle contadine. Le carsoline scendevano dal Carso, venivano in città e passavano da una casa all’altra con i loro pesanti bidoni del latte e versando quello, con i contenitori che avevano, di alluminio di stagno e ci davano il litro, il mezzo litro quanto serviva: tutto era abbastanza facile e anche le uova fresche arrivavano buone da mangiare. Dopo i primi anni di guerra le contadine cessarono di venire in città, era troppo pericoloso e non rendeva e quindi eh e quindi mia zia un giorno pensò una mattina di prenderci per mano e di portarci fino a casa di questa contadina. Una salita faticosa più di un’ora per noi che eravamo piccoli, una, una strada che ci impegnava e ci costava molta, molta fatica. Finalmente insomma si raggiunse la casa di questa contadina, allora capii dall’insistenza e dalle preghiere di mia zia che forse ci aveva portato per impietosire questa contadina. Infatti dopo tante preghiere ci, tirò fuori insomma una bottiglia di latte, quattro uova, un pezzetto di burro. Eh beh e con quel prezioso fardello, dopo i ringraziamenti, dopo aver pagato noi ci incamminammo verso casa, la discesa era un po’ più facile e più, e anche un po’ più lieta, al pensiero del cibo che avevamo guadagnato in qualche modo. Ehm altri discorsi di attesa e di, sì, erano collegate ma più che altro di paure vissute al tempo del coprifuoco. Capitò che una un pomeriggio eeeh la mamma accompagnò una parente venuta in visita fino alla stazione e e poi con noi bambini eh ci ci riportava a casa. Lungo la strada evidentemente avevamo fatto qualche lagna, qualche lamentela qualche, che aveva fatto perdere un po’ di tempo a mia mamma. Quando ritornammo insomma era, quasi giunti a casa, mancavano poche decine di metri, un soldato tedesco che era all’angolo della strada ci bloccò e con il fucile puntato ci fece addossare al muro della, della casa e sentivo la mano di mia mamma che mi teneva, farsi tremante poi darmi una stretta che quasi mi faceva, mi faceva male. Io ero immobile come tante altre volte in una situazione di paura ‘Perché quel fucile puntato?’ Non capivo. La mamma cominciò a parlare in tedesco perché aveva fatto le prime, i primi otto anni di scuola, essendo nata nel 1908 le aveva fatte nelle scuole tedesche, quindi ricordava, sapeva insomma bene parlare il tedesco o per lo meno farsi capire. E il soldato ebbe la spiegazione del del nostro ritardo che poi non era che di qualche minuto per arrivare a casa. Mia madre gli indicò col dito la, il portone a poca distanza e di nuovo, girato il fucile ci fece cenno di andarcene. A casa sia io che mio fratello scoppiammo in pianto e chiedemmo perché quel fucile era puntato contro di noi, e la mamma ci spiegò che avevamo sbagliato a, ad andare oltre quello che era il nostro, la legge che imponeva di non trovarsi in strada se non con un permesso dopo il coprifuoco. Ci furono altri momenti di di paura. Un momento strano di paura e anche brevemente per qualche istante piacevole fu quando una sera, mia madre, io mi ritrovai dal letto, avvolta in una coperta tra le braccia di mia madre che correva per portarci nei rifugi. Era cominciato il periodo dei bombardamenti e c’era stato evidentemente l’allarme. Io mi ritrovai in strada nel buio e molto, molto perplessa guardai, guardai in alto e vidi per la prima volta un cielo stellato. Furono pochi istanti meravigliosi, poi, il respiro ansante di mia madre per la corsa, ehm il freddo del, della strada buia, tutto questo mi riportò la solita troppo frequente sensazione di paura. Le sirene dell’allarme suonavano sempre più spesso in realtà e noi avevamo ormai fatto abitudine a quelle corse verso il rifugio di via Irenio della Croce. Là in una galleria grande lunga umida scura terribile, piena di gente, di chi c’era qualche bimbo che piangeva, qualche persona che si lamentava, qualche gruppi di adulti che parlavano tra di loro, però il tempo era interminabile. Forse questo rimanere nei rifugi a volte era solo una una decina di minuti o una mezz’ora, a noi insomma sembrava un tempo infinito, non si. Ogni volta poi c’era la paura di non riuscire a tornar fuori da quella, da quel tunnel, da quella galleria e riprendere la via di casa. E fu così che proprio un giorno, e questa è una data che è diventata cosa molto dolorosa per la mia famiglia. Era il 10 giugno del ’44, i bombardamenti, il bombardamento che probabilmente eeh doveva colpire il tribunale dove erano ancora asserragliati i tedeschi e arrivò a colpire una casa di via Rismondo e la nostra che crollò con le pareti che davano sul cortile che ehm furono infrante e e anche i vetri delle finestre, erano fatti, la bomba li aveva fatti esplodere e quindi tutte queste schegge di vetro si erano conficcate nelle nei muri, nei mobili, molti dei quali erano stati scaraventati a terra. Questa fu la sorpresa dolorosa al ritorno di una di quelle corse al rifugio. La, fu fu un momento anche per noi bambini, per me in particolare che ricordavo di essere stata proprio lì in quella, in quella stanza solo pochi poche ore poche ore, e quindi avrei potuto, se non fossimo andati al al rifugio in tempo avrei potuto essere lì, colpita da queste schegge, finire veramente in maniera terribile, quasi come un San Sebastiano trafitto e forse per questo che qualche volta quando vedo il quadro di San Sebastiano sento un brivido particolare. Eeeh non bastò questa visione della della casa distrutta, si arrivò subito dopo un altro dolore più grande: la nonna che era sofferente di cuore ebbe un infarto e il medico e la croce rossa che era stata chiamata non arrivarono in tempo, mia nonna, noi fummo spettatori di questa, di questa ora in cui la nonna agonizzava sul letto e le figlie stavano vicine a, con, piangendo e anche loro in maniera inconsolabile. Noi bambini sì fummo spettatori di questa, di questa scena che ovviamente non, portiamo dentro di noi ancora con grandissimo dolore. E posso dire solo questo che la la distruzione della casa, la morte di mia nonna concluse definitivamente la mia infanzia, non, non ci sono, non sono riuscita forse più a risollevarmi da questo trauma che ho subito da bambina perché se io penso alla mia vita e alle cose anche piene di di gioia e di felicità che poi avrei avuto, tutto questo non mi è bastato a far sì che la mia, la mia weltanschauung, la mia visione del mondo non sia proprio pessimistica, ma di un pessimismo nero che spesso mi porta a delle, a delle crisi di depressione dalle quali esco con, con una certa fatica e e anche quello che sono io oggi, una pacifista forse anche in maniera estrema, io sono arrivata al ripudio della guerra, ma non solo della guerra di conquista, della guerra per la revanche, anche di ogni forma di guerra, anche la guerra di difesa, non la ammetto, non la capisco, non, e direi anche nella vita quotidiana, quando io vivo una sensazione di, di tensione, di forte tensione, di contrasto la vivo in maniera molto molto in una maniera che mi porta un grado di sofferenza notevole, non sopporto i conflitti, le polemiche e quando queste si fanno più dure io cerco sempre una via di fuga, un angolino, il mio silenzio, e da questo poi, con fatica esco fuori a riprendere la mia normalità tra virgolette.
PS: E ha forse dei, dei ricordi o dei vaghi ricordi di come quel periodo veniva vissuto a casa, se i suoi genitori ne parlavano, non ne parlavano?
AV: Guardi, dunque io vivevo solo, in questa specie di matriarcato, nonna, mamma, due zie e a noi bambini cercavano di farci apparire sempre tutto abbastanza abbastanza sereno, abbastanza buono, ci confortavano rinviando a un altro momento il la, la compagnia per i giochi, certo non avevano tempo per giocare con noi. La mamma lavorava, anche la zia, l’altra zia più giovane aveva l’impegno di accudire la nonna e a noi bambini e alle cose di casa, quindi io penso che nonostante tutte queste difficoltà e queste gravi situazioni che due due donne che lavoravano e dei bambini che chiedevano sempre qualcosa o comunque un aiuto o la presenza dei, del della mamma, la presenza e questo, e tutto questo mancava. Certo che gli adulti erano costretti a trovare la forza per loro, per risolvere i problemi e in più a fare un tentativo di aiutare anche noi bambini a vivere almeno in qualche momento una situazione di maggiore serenità, però questa era piuttosto rara.
PS: Che lavori facevano sua mamma e sua nonna?
AV: Ehm la nonna ormai era in casa e l’unico, l’unica sua occupazione era quella di badare qualche volta a noi, ehm mentre l’altra zia giovane faceva i lavori di casa, la mia mamma era impiegata e la sera spesso si portava a casa ancora il lavoro, del lavoro da fare, appunto sempre in questa necessità di danaro per comperare quelle cose che diventavano sempre più difficili da trovare. L’altra zia ehm lavorava alla SAMPT che era una società mineraria tedesca situata sulle rive a Trieste, e aveva anche uno stipendio piuttosto buono. Era lei che ogni tanto, non si sa come, riusciva a tornare a casa con una scatoletta di marmellata o con qualche biscotto per noi bambini: era una festa tutte le volte che arrivava, per noi sembrava molto più che San Nicolò, il Natale erano sorprese ci, ci davano qualche momento di di felicità e di insperata contentezza.
PS: Riguardo ai rifugi, andavate sempre nello stesso rifugio? Andavate in rifugi diversi?
AV: Eh dunque io abitavo in via Marconi proprio di fronte alla statua di Domenico Rossetti. La, nel giardino pubblico c’era una piccola casetta che poteva, così offrire, soprattutto nei momenti in cui il suono della sirena era diventato, insomma non si era riusciti ad uscire in tempo perché bisognava vestirsi, bisogna mettere le scarpe ai bambini e allora alle volte ci fermavamo in questa casetta ma non, del giardino pubblico, però non ci dava troppo affidamento quindi la corsa era quasi sempre fino al rifugio di via Ireneo della Croce.
PS: Le è mai capitato di vedere qualcosa, degli aerei o erano solo una presenza?
AV: No, eh mi mi è capitato di sentire qualche volta appunto in queste, in queste corse ai rifugi di sentire questo rombo degli aerei in lontananza e di e ovviamente, al in concomitanza con questo rombo le mamme, zie ci costringevano ad affrettare il passo oppure ci prendevano addirittura in braccio per far prima, e correre in questo posto in cui ci sentivamo relativamente sicuri. Mi avevi chiesto? Aveva chiesto? Degli aerei, se? Posso dire solo questo che, finita la guerra, quando ci fu primo, una prima serata a Trieste con i fuochi d’artificio, io che avevo allora cinque anni ormai eeeh, invece di sentire una festa sentii una cosa, una cosa orribile e cominciai a tirare la mamma per ritornare a casa come, come dovessimo proprio cercare in fretta qualche, qualche posto dove nasconderci in tempo. Non volevo vedere i fuochi d’artificio soprattutto non volevo sentire quel, quegli scoppi.
PS: Certo.
AV: Sempre periodo della, fine della guerra Trieste c’è stato, dopo per gli altri città d’Italia il, la fine della guerra era arrivata alla fine di aprile, noi invece avevamo avuto il periodo del, dell’arrivo dell’esercito cosiddetto dei ‘Titini’. Io questi soldati molto, molto male vestiti con divise che erano abbastanza, si vede, consunte strappate, venivano, li ho visti venire, scendere giù per via Cesare Battisti, e cantare e cantare urlando oppure urlando ‘Trst je nas!’ o cantare ‘[unclear]’. Io anche quella volta era forse tra le prime, sentire queste strane, queste strane parole avevo chiesto subito ‘Ma cosa dicono? Cosa cosa stanno urlando?’ ‘Eeeh’ e mia mamma ha detto ‘Eh dicono che Trieste è loro’ ‘Ma è loro?’ ‘Eeeh’ non, mia mamma non mi diede più nessuna risposta e, e come al solito si cercò solo di arrivare più velocemente possibile a casa. Furono, quei trenta giorni furono giorni duri per la città. Noi naturalmente da bambini eh per fortuna non non capivamo tutto non eravamo consapevoli dei pericoli o dei rischi in più che si potevano ancora correre una volta finita la guerra.
PS: E adesso e come, come vede quel periodo della guerra, come vede i bombardamenti? Cosa?
AV: Eh. Sono, sono purtroppo sentiti come causa di tante, di tante distruzione, causa di sofferenze, di macerie, che non sono solo quelle macerie materiali ma sono anche cicatrici indelebili, proprio queste ferite probabilmente, così dure da rimarginarsi diventano per alcuni motivo di desiderare un’altra guerra per far giustizia, le guerre non portano giustizia e i bombardamenti portano solo rovine.
PS: Che cosa pensa di chi li conduceva quei bombardamenti, quindi degli americani e degli inglesi.
AV: Purtroppo non vi viene di far differenza tra chi pilotava l’aereo del paese che sarebbe poi stato vincitore o di chi era invece il pilota di di aerei che sarebbero stati abbattuti o avrebbero fatto soltanto eeeh così un, una portata enorme di distruzione ma senza senza raggiungere un possibile fine. Non, penso che, che se son riusciti a fare questo sono riusciti a essere convinti che lo facevano per il bene del proprio paese. Io questo non posso, non posso pensarlo e quindi vedo questi uomini come, forse dei robot che sono stati loro stessi pilotati da altri, da altre forze e per portare in fondo qualche cosa che è servito solo a lasciare disperazione, dolore e ricordi brutti alla gente. [pause] Penso che molti di questi piloti si saranno sentiti degli eroi ma io penso in realtà che le bombe non possono far altro che creare una, una dolorosa situazione per, più che materiale, come dicevo anche poco fa è una distruzione spirituale. Questa finirà soltanto quando forse, nel mio pessimismo non mi è dato di pensare, qualcuno diventerà l’eroe della pace e non sarà più, non si penserà più come potatore di beni, di bene, di salvezza attraverso un periodo più o meno lungo di guerra.
PS: Va bene mi scusi se faccio ancora un salto indietro. Lei ha mai sentito parlare di Pippo?
AV: Si con questo nome era designato un, un pilota di un aereo che spesso era venuto, aveva sorvolato il cielo di Trieste e molte delle macerie, e anche di, di luoghi vicinissimi alla mia casa, per esempio via Rismondo, per esempio via Rossetti dove venne abbattuta una chiesa credo sia stata proprio opera di questo Pippo, che un po’, ben noto e ancora più temuto.
PS: Non si ricorda se di questo se ne era parlato anche a casa?
AV: Eh no, per la verità davanti a noi bambini, ecco questa attenzione forse delle, della mamma delle zie era quella di tenerci fuori da questo. Solo quando eravamo noi a porre le domande cercavano una qualche risposta che fosse possibile per un bambino e che fosse una risposta che acquietasse il bambino. Quindi abbiamo, insomma ho sentito molto poco parlare di guerra e poi anche con le non, con le zie con la mamma non, quando siamo diventati ragazzi o anche durante il periodo della giovinezza noi non abbiamo voluto ricordare queste cose, era, è stato tutto quanto sepolto per lungo tempo nel, in famiglia, si è, forse come anche io ho detto che tendo a chiudermi nel mio silenzio forse la stessa cosa è finita con l’essere quella che sembrava la soluzione più, più giusta, non pensare più a quelle, a quelle orribili cose che comunque venivano fuori da sole in certe circostanze, o per rivedere certi luoghi o per sentire di altra gente che pativa la fame allora sì, si tornava col pensiero alla guerra, ma come così tendenza a commentare quegli anni a commentare quei fatti, fu, non ci fu, in realtà forse proprio perché eravamo un gruppo di di donne e non di uomini, e anche gli uomini ritornati dalla guerra, mio zio più, più giovane che aveva conosciuto il campo di concentramento sì tendeva a ricordare delle cose però non ‘Vi risparmio’ diceva ‘di raccontare tutto quello che ho patito’. Solo un giorno quando difese un un altro che era nel campo di concentramento, chi lo, chi controllava quell’ambiente lo diffidò dal, dall’aiutarlo, dal sottrarlo alla punizione che gli stavano dando e gli dissero ‘Per questa volta, visto che ti chiami Fisher finiamo così ma stai bene attento che uguale sorte sarebbe per te la prossima volta’. Ecco, sì. Mi si è richiamato alla mente il fatto che di vicende di guerra vissute dagli uomini furono solo queste insomma, non non poco gravi perché credo che i due anni di campo di concentramento che avevano fatto ritornare questo zio neanche trentenne a casa più simile a uno spettro che non a un uomo, eh beh sono appunto ricordi, ricordi pesanti e giustamente anche lui non voleva riviverle. E poi raccontare alle donne dei fatti di guerra non si, non si ottiene troppa, troppo applauso, non si tengono applausi, si ottengono solo inviti a tacere ‘Basta! Basta!’ per la donna è anche troppo quello che ha dovuto, ha dovuto soffrire, la lontananza di chi avrebbe potuto proteggerle il marito, il padre, il fratello e quindi anche in questo senso la guerra certo non fa un buon lavoro né per chi la vive direttamente né per chi la subisce.
PS: Ehm solo ancora una o due domande dopo concludiamo, si ricorda dove era internato suo zio?
AV: Eh non ricordo esattamente. So che erano, faceva parte di un gruppo di soldati che erano stati bloccati dopo il ’43, dopo naturalmente l’armistizio per quello che fu l’armistizio dell’8 settembre, ehm furono bloccati in Croazia e dalla Croazia furono portati credo in Germania ma no ricordo esattamente il nome del di quel luogo. Certo non fu uno di quei luoghi come i centri di importanti noti no storicamente come tipo Dachau e simili. Era probabilmente una località vicina al luogo dove dove erano stati bloccati e fatti prigionieri.
PS: Va bene guardi io la ringrazio tanto del suo tempo anche a nome del Bomber Command, del progetto, e posso spegnere il registratore.
AV: Va bene.
PS: Grazie.
AV: Allora, sono nata a Trieste il 31 dicembre 1939, quindi in coincidenza perfettamente con l’inizio dela seconda guerra mondiale, l’ho vissuta tutta. Naturalmente dei primi anni eh non ho ricordi se, partiamo dal 1943 quando io avevo tre anni. Allora abitavo con la, con la mia mamma, la nonna, due zie, il mio fratellino più piccolo e una cugina di qualche anno più grande. Eravamo un bel numero di persone che vivevano tranquillamente assieme. Tutta questa tranquillità sparì, sempre di più, e creando un un’ombra che gravava su di noi e noi anche se bambini percepivamo benissimo. E i miei ricordi forse anche alcuni molto nitidi e precisi, con un’immagine chiara di quello che avevo vissuto ormai quasi tre quarti di secolo fa. Erano ricordi legati tutti a una situazione che era diventata pesante, pesante per la mancanza di cibo, pesante per le paure che provavamo ehm in per vari motivi, noi bambini in particolare al tempo del, del coprifuoco. Avevamo vissuto quelle sere con grande paura e timore perché addormentarsi da soli in una stanza buia non era certo cosa piacevole e facile da superare. C’era poi una costante atmosfera pesante di lunghe attese. Bisognava attendere per vari motivi, noi bimbi piccoli avevamo fame e ci lamentavamo più di una volta, e alle nostre domande di mangiare qualcosa ci veniva immancabile la risposta: ‘Dovete aspettare’ ‘Aspettare cosa?’. Aspettare l’ora di cena o l’ora di pranzo per mangiare una minestrina insipida che certamente non ci saziava del tutto. Bisognava spettare, aspettare con la mamma o con la zia nei negozi dove si andava con una tessera annonaria a prendere quel poco di cibo che si trovava. Dal ’43 in poi infatti i generi alimentari nei negozi eh anche se di prima necessità avevano, erano pochi, erano spariti e si faceva difficoltà enorme a trovare qualche cosa, anche avendo magari un po’ di soldi per comprarla, ma la roba non c’era. Fu così che, a poco più di tre anni feci la mia prima gita in Carso, una gita motivata proprio da questo, cioè dalla ricerca del cibo. Noi, come tante altre famiglie triestine, avevamo da prima della guerra e poi nei primi anni, il latte le uova fresche portate dalle contadine. Le carsoline scendevano dal Carso, venivano in città e passavano da una casa all’altra con i loro pesanti bidoni del latte e versando quello, con i contenitori che avevano, di alluminio di stagno e ci davano il litro, il mezzo litro quanto serviva: tutto era abbastanza facile e anche le uova fresche arrivavano buone da mangiare. Dopo i primi anni di guerra le contadine cessarono di venire in città, era troppo pericoloso e non rendeva e quindi eh e quindi mia zia un giorno pensò una mattina di prenderci per mano e di portarci fino a casa di questa contadina. Una salita faticosa più di un’ora per noi che eravamo piccoli, una, una strada che ci impegnava e ci costava molta, molta fatica. Finalmente insomma si raggiunse la casa di questa contadina, allora capii dall’insistenza e dalle preghiere di mia zia che forse ci aveva portato per impietosire questa contadina. Infatti dopo tante preghiere ci, tirò fuori insomma una bottiglia di latte, quattro uova, un pezzetto di burro. Eh beh e con quel prezioso fardello, dopo i ringraziamenti, dopo aver pagato noi ci incamminammo verso casa, la discesa era un po’ più facile e più, e anche un po’ più lieta, al pensiero del cibo che avevamo guadagnato in qualche modo. Ehm altri discorsi di attesa e di, sì, erano collegate ma più che altro di paure vissute al tempo del coprifuoco. Capitò che una un pomeriggio eeeh la mamma accompagnò una parente venuta in visita fino alla stazione e e poi con noi bambini eh ci ci riportava a casa. Lungo la strada evidentemente avevamo fatto qualche lagna, qualche lamentela qualche, che aveva fatto perdere un po’ di tempo a mia mamma. Quando ritornammo insomma era, quasi giunti a casa, mancavano poche decine di metri, un soldato tedesco che era all’angolo della strada ci bloccò e con il fucile puntato ci fece addossare al muro della, della casa e sentivo la mano di mia mamma che mi teneva, farsi tremante poi darmi una stretta che quasi mi faceva, mi faceva male. Io ero immobile come tante altre volte in una situazione di paura ‘Perché quel fucile puntato?’ Non capivo. La mamma cominciò a parlare in tedesco perché aveva fatto le prime, i primi otto anni di scuola, essendo nata nel 1908 le aveva fatte nelle scuole tedesche, quindi ricordava, sapeva insomma bene parlare il tedesco o per lo meno farsi capire. E il soldato ebbe la spiegazione del del nostro ritardo che poi non era che di qualche minuto per arrivare a casa. Mia madre gli indicò col dito la, il portone a poca distanza e di nuovo, girato il fucile ci fece cenno di andarcene. A casa sia io che mio fratello scoppiammo in pianto e chiedemmo perché quel fucile era puntato contro di noi, e la mamma ci spiegò che avevamo sbagliato a, ad andare oltre quello che era il nostro, la legge che imponeva di non trovarsi in strada se non con un permesso dopo il coprifuoco. Ci furono altri momenti di di paura. Un momento strano di paura e anche brevemente per qualche istante piacevole fu quando una sera, mia madre, io mi ritrovai dal letto, avvolta in una coperta tra le braccia di mia madre che correva per portarci nei rifugi. Era cominciato il periodo dei bombardamenti e c’era stato evidentemente l’allarme. Io mi ritrovai in strada nel buio e molto, molto perplessa guardai, guardai in alto e vidi per la prima volta un cielo stellato. Furono pochi istanti meravigliosi, poi, il respiro ansante di mia madre per la corsa, ehm il freddo del, della strada buia, tutto questo mi riportò la solita troppo frequente sensazione di paura. Le sirene dell’allarme suonavano sempre più spesso in realtà e noi avevamo ormai fatto abitudine a quelle corse verso il rifugio di via Irenio della Croce. Là in una galleria grande lunga umida scura terribile, piena di gente, di chi c’era qualche bimbo che piangeva, qualche persona che si lamentava, qualche gruppi di adulti che parlavano tra di loro, però il tempo era interminabile. Forse questo rimanere nei rifugi a volte era solo una una decina di minuti o una mezz’ora, a noi insomma sembrava un tempo infinito, non si. Ogni volta poi c’era la paura di non riuscire a tornar fuori da quella, da quel tunnel, da quella galleria e riprendere la via di casa. E fu così che proprio un giorno, e questa è una data che è diventata cosa molto dolorosa per la mia famiglia. Era il 10 giugno del ’44, i bombardamenti, il bombardamento che probabilmente eeh doveva colpire il tribunale dove erano ancora asserragliati i tedeschi e arrivò a colpire una casa di via Rismondo e la nostra che crollò con le pareti che davano sul cortile che ehm furono infrante e e anche i vetri delle finestre, erano fatti, la bomba li aveva fatti esplodere e quindi tutte queste schegge di vetro si erano conficcate nelle nei muri, nei mobili, molti dei quali erano stati scaraventati a terra. Questa fu la sorpresa dolorosa al ritorno di una di quelle corse al rifugio. La, fu fu un momento anche per noi bambini, per me in particolare che ricordavo di essere stata proprio lì in quella, in quella stanza solo pochi poche ore poche ore, e quindi avrei potuto, se non fossimo andati al al rifugio in tempo avrei potuto essere lì, colpita da queste schegge, finire veramente in maniera terribile, quasi come un San Sebastiano trafitto e forse per questo che qualche volta quando vedo il quadro di San Sebastiano sento un brivido particolare. Eeeh non bastò questa visione della della casa distrutta, si arrivò subito dopo un altro dolore più grande: la nonna che era sofferente di cuore ebbe un infarto e il medico e la croce rossa che era stata chiamata non arrivarono in tempo, mia nonna, noi fummo spettatori di questa, di questa ora in cui la nonna agonizzava sul letto e le figlie stavano vicine a, con, piangendo e anche loro in maniera inconsolabile. Noi bambini sì fummo spettatori di questa, di questa scena che ovviamente non, portiamo dentro di noi ancora con grandissimo dolore. E posso dire solo questo che la la distruzione della casa, la morte di mia nonna concluse definitivamente la mia infanzia, non, non ci sono, non sono riuscita forse più a risollevarmi da questo trauma che ho subito da bambina perché se io penso alla mia vita e alle cose anche piene di di gioia e di felicità che poi avrei avuto, tutto questo non mi è bastato a far sì che la mia, la mia weltanschauung, la mia visione del mondo non sia proprio pessimistica, ma di un pessimismo nero che spesso mi porta a delle, a delle crisi di depressione dalle quali esco con, con una certa fatica e e anche quello che sono io oggi, una pacifista forse anche in maniera estrema, io sono arrivata al ripudio della guerra, ma non solo della guerra di conquista, della guerra per la revanche, anche di ogni forma di guerra, anche la guerra di difesa, non la ammetto, non la capisco, non, e direi anche nella vita quotidiana, quando io vivo una sensazione di, di tensione, di forte tensione, di contrasto la vivo in maniera molto molto in una maniera che mi porta un grado di sofferenza notevole, non sopporto i conflitti, le polemiche e quando queste si fanno più dure io cerco sempre una via di fuga, un angolino, il mio silenzio, e da questo poi, con fatica esco fuori a riprendere la mia normalità tra virgolette.
PS: E ha forse dei, dei ricordi o dei vaghi ricordi di come quel periodo veniva vissuto a casa, se i suoi genitori ne parlavano, non ne parlavano?
AV: Guardi, dunque io vivevo solo, in questa specie di matriarcato, nonna, mamma, due zie e a noi bambini cercavano di farci apparire sempre tutto abbastanza abbastanza sereno, abbastanza buono, ci confortavano rinviando a un altro momento il la, la compagnia per i giochi, certo non avevano tempo per giocare con noi. La mamma lavorava, anche la zia, l’altra zia più giovane aveva l’impegno di accudire la nonna e a noi bambini e alle cose di casa, quindi io penso che nonostante tutte queste difficoltà e queste gravi situazioni che due due donne che lavoravano e dei bambini che chiedevano sempre qualcosa o comunque un aiuto o la presenza dei, del della mamma, la presenza e questo, e tutto questo mancava. Certo che gli adulti erano costretti a trovare la forza per loro, per risolvere i problemi e in più a fare un tentativo di aiutare anche noi bambini a vivere almeno in qualche momento una situazione di maggiore serenità, però questa era piuttosto rara.
PS: Che lavori facevano sua mamma e sua nonna?
AV: Ehm la nonna ormai era in casa e l’unico, l’unica sua occupazione era quella di badare qualche volta a noi, ehm mentre l’altra zia giovane faceva i lavori di casa, la mia mamma era impiegata e la sera spesso si portava a casa ancora il lavoro, del lavoro da fare, appunto sempre in questa necessità di danaro per comperare quelle cose che diventavano sempre più difficili da trovare. L’altra zia ehm lavorava alla SAMPT che era una società mineraria tedesca situata sulle rive a Trieste, e aveva anche uno stipendio piuttosto buono. Era lei che ogni tanto, non si sa come, riusciva a tornare a casa con una scatoletta di marmellata o con qualche biscotto per noi bambini: era una festa tutte le volte che arrivava, per noi sembrava molto più che San Nicolò, il Natale erano sorprese ci, ci davano qualche momento di di felicità e di insperata contentezza.
PS: Riguardo ai rifugi, andavate sempre nello stesso rifugio? Andavate in rifugi diversi?
AV: Eh dunque io abitavo in via Marconi proprio di fronte alla statua di Domenico Rossetti. La, nel giardino pubblico c’era una piccola casetta che poteva, così offrire, soprattutto nei momenti in cui il suono della sirena era diventato, insomma non si era riusciti ad uscire in tempo perché bisognava vestirsi, bisogna mettere le scarpe ai bambini e allora alle volte ci fermavamo in questa casetta ma non, del giardino pubblico, però non ci dava troppo affidamento quindi la corsa era quasi sempre fino al rifugio di via Ireneo della Croce.
PS: Le è mai capitato di vedere qualcosa, degli aerei o erano solo una presenza?
AV: No, eh mi mi è capitato di sentire qualche volta appunto in queste, in queste corse ai rifugi di sentire questo rombo degli aerei in lontananza e di e ovviamente, al in concomitanza con questo rombo le mamme, zie ci costringevano ad affrettare il passo oppure ci prendevano addirittura in braccio per far prima, e correre in questo posto in cui ci sentivamo relativamente sicuri. Mi avevi chiesto? Aveva chiesto? Degli aerei, se? Posso dire solo questo che, finita la guerra, quando ci fu primo, una prima serata a Trieste con i fuochi d’artificio, io che avevo allora cinque anni ormai eeeh, invece di sentire una festa sentii una cosa, una cosa orribile e cominciai a tirare la mamma per ritornare a casa come, come dovessimo proprio cercare in fretta qualche, qualche posto dove nasconderci in tempo. Non volevo vedere i fuochi d’artificio soprattutto non volevo sentire quel, quegli scoppi.
PS: Certo.
AV: Sempre periodo della, fine della guerra Trieste c’è stato, dopo per gli altri città d’Italia il, la fine della guerra era arrivata alla fine di aprile, noi invece avevamo avuto il periodo del, dell’arrivo dell’esercito cosiddetto dei ‘Titini’. Io questi soldati molto, molto male vestiti con divise che erano abbastanza, si vede, consunte strappate, venivano, li ho visti venire, scendere giù per via Cesare Battisti, e cantare e cantare urlando oppure urlando ‘Trst je nas!’ o cantare ‘[unclear]’. Io anche quella volta era forse tra le prime, sentire queste strane, queste strane parole avevo chiesto subito ‘Ma cosa dicono? Cosa cosa stanno urlando?’ ‘Eeeh’ e mia mamma ha detto ‘Eh dicono che Trieste è loro’ ‘Ma è loro?’ ‘Eeeh’ non, mia mamma non mi diede più nessuna risposta e, e come al solito si cercò solo di arrivare più velocemente possibile a casa. Furono, quei trenta giorni furono giorni duri per la città. Noi naturalmente da bambini eh per fortuna non non capivamo tutto non eravamo consapevoli dei pericoli o dei rischi in più che si potevano ancora correre una volta finita la guerra.
PS: E adesso e come, come vede quel periodo della guerra, come vede i bombardamenti? Cosa?
AV: Eh. Sono, sono purtroppo sentiti come causa di tante, di tante distruzione, causa di sofferenze, di macerie, che non sono solo quelle macerie materiali ma sono anche cicatrici indelebili, proprio queste ferite probabilmente, così dure da rimarginarsi diventano per alcuni motivo di desiderare un’altra guerra per far giustizia, le guerre non portano giustizia e i bombardamenti portano solo rovine.
PS: Che cosa pensa di chi li conduceva quei bombardamenti, quindi degli americani e degli inglesi.
AV: Purtroppo non vi viene di far differenza tra chi pilotava l’aereo del paese che sarebbe poi stato vincitore o di chi era invece il pilota di di aerei che sarebbero stati abbattuti o avrebbero fatto soltanto eeeh così un, una portata enorme di distruzione ma senza senza raggiungere un possibile fine. Non, penso che, che se son riusciti a fare questo sono riusciti a essere convinti che lo facevano per il bene del proprio paese. Io questo non posso, non posso pensarlo e quindi vedo questi uomini come, forse dei robot che sono stati loro stessi pilotati da altri, da altre forze e per portare in fondo qualche cosa che è servito solo a lasciare disperazione, dolore e ricordi brutti alla gente. [pause] Penso che molti di questi piloti si saranno sentiti degli eroi ma io penso in realtà che le bombe non possono far altro che creare una, una dolorosa situazione per, più che materiale, come dicevo anche poco fa è una distruzione spirituale. Questa finirà soltanto quando forse, nel mio pessimismo non mi è dato di pensare, qualcuno diventerà l’eroe della pace e non sarà più, non si penserà più come potatore di beni, di bene, di salvezza attraverso un periodo più o meno lungo di guerra.
PS: Va bene mi scusi se faccio ancora un salto indietro. Lei ha mai sentito parlare di Pippo?
AV: Si con questo nome era designato un, un pilota di un aereo che spesso era venuto, aveva sorvolato il cielo di Trieste e molte delle macerie, e anche di, di luoghi vicinissimi alla mia casa, per esempio via Rismondo, per esempio via Rossetti dove venne abbattuta una chiesa credo sia stata proprio opera di questo Pippo, che un po’, ben noto e ancora più temuto.
PS: Non si ricorda se di questo se ne era parlato anche a casa?
AV: Eh no, per la verità davanti a noi bambini, ecco questa attenzione forse delle, della mamma delle zie era quella di tenerci fuori da questo. Solo quando eravamo noi a porre le domande cercavano una qualche risposta che fosse possibile per un bambino e che fosse una risposta che acquietasse il bambino. Quindi abbiamo, insomma ho sentito molto poco parlare di guerra e poi anche con le non, con le zie con la mamma non, quando siamo diventati ragazzi o anche durante il periodo della giovinezza noi non abbiamo voluto ricordare queste cose, era, è stato tutto quanto sepolto per lungo tempo nel, in famiglia, si è, forse come anche io ho detto che tendo a chiudermi nel mio silenzio forse la stessa cosa è finita con l’essere quella che sembrava la soluzione più, più giusta, non pensare più a quelle, a quelle orribili cose che comunque venivano fuori da sole in certe circostanze, o per rivedere certi luoghi o per sentire di altra gente che pativa la fame allora sì, si tornava col pensiero alla guerra, ma come così tendenza a commentare quegli anni a commentare quei fatti, fu, non ci fu, in realtà forse proprio perché eravamo un gruppo di di donne e non di uomini, e anche gli uomini ritornati dalla guerra, mio zio più, più giovane che aveva conosciuto il campo di concentramento sì tendeva a ricordare delle cose però non ‘Vi risparmio’ diceva ‘di raccontare tutto quello che ho patito’. Solo un giorno quando difese un un altro che era nel campo di concentramento, chi lo, chi controllava quell’ambiente lo diffidò dal, dall’aiutarlo, dal sottrarlo alla punizione che gli stavano dando e gli dissero ‘Per questa volta, visto che ti chiami Fisher finiamo così ma stai bene attento che uguale sorte sarebbe per te la prossima volta’. Ecco, sì. Mi si è richiamato alla mente il fatto che di vicende di guerra vissute dagli uomini furono solo queste insomma, non non poco gravi perché credo che i due anni di campo di concentramento che avevano fatto ritornare questo zio neanche trentenne a casa più simile a uno spettro che non a un uomo, eh beh sono appunto ricordi, ricordi pesanti e giustamente anche lui non voleva riviverle. E poi raccontare alle donne dei fatti di guerra non si, non si ottiene troppa, troppo applauso, non si tengono applausi, si ottengono solo inviti a tacere ‘Basta! Basta!’ per la donna è anche troppo quello che ha dovuto, ha dovuto soffrire, la lontananza di chi avrebbe potuto proteggerle il marito, il padre, il fratello e quindi anche in questo senso la guerra certo non fa un buon lavoro né per chi la vive direttamente né per chi la subisce.
PS: Ehm solo ancora una o due domande dopo concludiamo, si ricorda dove era internato suo zio?
AV: Eh non ricordo esattamente. So che erano, faceva parte di un gruppo di soldati che erano stati bloccati dopo il ’43, dopo naturalmente l’armistizio per quello che fu l’armistizio dell’8 settembre, ehm furono bloccati in Croazia e dalla Croazia furono portati credo in Germania ma no ricordo esattamente il nome del di quel luogo. Certo non fu uno di quei luoghi come i centri di importanti noti no storicamente come tipo Dachau e simili. Era probabilmente una località vicina al luogo dove dove erano stati bloccati e fatti prigionieri.
PS: Va bene guardi io la ringrazio tanto del suo tempo anche a nome del Bomber Command, del progetto, e posso spegnere il registratore.
AV: Va bene.
PS: Grazie.
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Citation
Peter Schulze, “Interview with Annamaria De Manzano Vici,” IBCC Digital Archive, accessed December 11, 2024, https://ibccdigitalarchive.lincoln.ac.uk/omeka/collections/document/7767.
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