Interview with Santina Colombo

Title

Interview with Santina Colombo

Description

Santina Colombo describes her early life in a family of farmers, her father a fervent socialist. She mentions the start of the war announced on the radio and gives a detailed account of civilian life in wartime Milan: scarce food, growing vegetables on small plots, home rearing of geese, and the constant fear for the fate of enlisted relatives. Describes bombings and the rush for safety in a nearby basement, men and women praying together during the alarm, and hugging each other after the all-clear signal. Recalls the constant fear that her home would be destroyed and the trauma of seeing corpses on the road. Mentions the Cascina Bellaria killing and describes how her husband, a partisan, narrowly escaped death. Describes fascist violence, leading to acts of revenge after the war. Mentions her aunt and cousin living with the Germans, the latter to become pregnant. Speaks of aircrew as odious and detestable, and scorns on Mussolini and Hitler.

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Date

2016-12-03

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00:35:13 audio recording

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Contributor

Identifier

AColomboS161203, PColomboS1602

Transcription

ZG: L’intervista è condotta per l’international Bomber Command Centre. L’intervistatore è Zeno Gaiaschi, dell’Associazione Lapsus. L’intervistata è Santina Colombo e nella stanza è presente Greta Fedele, come parente, e sara Troglio dell’associazione Lapsus. È il 3 dicembre 2016, e siamo in via [omitted] a Milano. Iniziamo. Prima della guerra, che lavoro facevano i suoi genitori?
SC: Contadini. Ma la mamma era a casa perché aveva, avevo il fratellino che aveva quattro anni, mia sorella ne aveva sette e io ne avevo undici prima della guerra.
ZG: Qual è il ricordo più lontano nel tempo che ha?
SC: Il ricordo più lontano è quando sono morti i nonni, diciamo, e poi quando c’era mio zio lì nel cortile dove abitavo io, io abitavo al primo piano, lui al pianterreno, facevano i contadini però avevano la radio e quando hanno comunicato che il Duce ha fatto la, si è messo con Hitler, tutti contenti all’inizio ma c’era anche chi non era contento, come mio papà, è sempre stato un comunista, no, socialista, socialista, e non era contento. E poi, il pensiero della guerra, perché iniziava la guerra dopo. Quello lì è il ricordo più brutto che ho, quando ero una bambina ecco.
ZG: Mi racconti un pochino della sua famiglia.
SC: Sì.
ZG: Come viveva la sua famiglia prima della guerra.
SC: Prima della guerra, dunque… Papà è nato nel ’91 e la mamma nel ’99, 1999 [sic]. E si sono sposati nel ’27 o ’28, io sono nata nel ’29 eh. Papà era contadino, sempre stato contadino e la mamma pure, che non è mai andata al lavoro negli stabilimenti, faceva la contadina. Quando sono nata io la mamma è stata a casa. Dopo, avevo quattro anni, avevo quattro anni, è nata mia sorella, è nata mia sorella e la mamma non è più andata al lavoro finché nel ’36 è nato mio fratello, è andata al lavoro, ha cominciato nel 1940 andare al lavoro ancora. Io ero la più grande e dovevo curare sorella e fratello, anche se ero ancora piccolina io [laughs]. Però, però non c’era niente da mangiare, è quello perché… la carne si mangiava a Natale, a Pasqua e alla festa del paese, la carne. E se no c’era il risotto col lardo, o risotto coi fagioli, minestra e taleggio e una mela in cinque. Che papà la sbucciava, io ero la più grandina, ero qua vicina, una fettina perché si può immaginare una mela in cinque, la dava prima a me, poi la dava a mia sorella di là intanto che lei guardava la mela io le davo una pedata sotto il tavolo, e la mela gliela mangiavo io [laughs], perché insomma ero la più grande e insomma non bastava quello che mi dava perché anche la minestra e il risotto era abbastanza poco. Lavorava solo il papà, eravamo in cinque. Non è che avevamo l’appartamento perché c’era un locale un po’ più grande di questo, il papà l’aveva diviso a metà con delle perline di legno, c’era la camera con il letto matrimoniale del papà e la mamma e i tre lettini per noi e la cucina ci stavamo appena appena dentro a mangiare. Poi il papà aveva preso un pezzettino, il cortile era grande e gliel’ha chiesto lì al proprietario, le ha dato un pezzettino di terreno, ha fatto l’orto. Fatto l’orto con un bel sgabuzzino di legno e lì coltivava la verdura, lui è sempre stato coltivatore di verdure e quando avevamo i soldi, perché i soldi li portava a casa solo lui, avevamo i soldi, ho detto ‘io prendo due oche, prendo due oche, li metto là nel giardino e la sera, la sera le portiamo di sopra perché se no ce le portano via’. In più alla sera in casa aveva fatto come un, non diciamo stabiello per il maiale, però ha fatto un recintino piccolino con della paglia sotto per le due oche che metteva lì alla sera andava giù a prenderle e portava di sopra. Il mattino le portava giù prima di andare al lavoro, erano giù. E noi andavamo là, noi bambini portavamo un pezzettino di pane ma poco perché mancava a noi e le davamo da mangiare. Però prima di Natale, quando era buona per ucciderla, la uccidevano e la mettevano dentro nella, adesso non ricordo più come si chiama, si chiama giara o cosa, che la facevano andare con il lardo e un po’ di olio poco, burro, perché l’olio costava di più del burro e la mettevano dentro a pezzi, dentro ne quella giara lì, sotto la finestra in camera, che prendeva un po’ di freddo, e ogni tanto, ogni tanto, ogni quindici o venti giorni tiravano fuori un pezzettino, la facevano andare con le verze, una specie di verzata. Piuttosto del maiale si metteva l’oca e si mangiava, però andava benone. Quello che mi ricordo prima della guerra, dopo [laughs].
ZG: È stata fantastica. Ehm, si ricorda di quando è scoppiata la guerra?
SC: Sì. Quando è scoppiata la guerra dove abitavamo noi, in via Lampugnano al 175, e lì erano tutte case a pianterreno, primo piano e pianterreno, cantine non ce n’erano. Quando suonava l’allarme per i bombardamenti dovevamo fare la via Lampugnano, andare in via Beolchi, dove c’era la casa lì, che era una casa fatta su cantine e lì era il rifugio, ma era una cantina diciamo e però ci trovavamo là tutti assieme. Di notte quando suonava l’allarme, dovevamo saltare fuori dal letto, coprirsi con la coperta che avevamo su sul letto e scappare via con gli zoccoli, e via e andare. Stavamo là finchè suonava il cessate allarme e poi si tornava a casa. Poi una volta, mi ricordo che avevo dodici anni, e sono andata con mia mamma in via Novara, che lì aveva degli amici, dei parenti, degli amici più che parenti, che abitavano qui, si erano sposati e l’hanno invitata ad andare là a vedere la sua casa. E siamo andati, mi ha detto vieni anche te, vieni anche te. Eravamo lì che stavamo per partire, venivi a casa a piedi eh, da via Novara che dopo comincia via Rubens, e suona l’allarme, abbiamo dovuto fermarci lì e siamo andati giù nel rifugio lì suo dove abitavano loro. Suonato il cessate allarme, abbiam preso e siamo venuti a casa. Sulla via Novara sui marciapiedi abbiamo visto tre morti che sembravano, non dico lo spavento che ho preso quella volta lì perché c’erano fuori gli han sparato proprio nella testa che è andata giù una bomba in Via Novara dove ci sono tutte quelle case lì adesso, ecco. Comunque niente, siamo venuti a casa e tutta spaventata io perché, eh, era la prima volta che vedevo i morti così. Sì avevamo paura che quando suonava l’allarme perché si diceva se viene giù una bomba qui altro che andare giù con la casa qui. Però. Così.
ZG: Invece proprio, si ricorda del giorno in cui è scoppiata la guerra? Di come gliene avevano parlato gli adulti, di come gli è arrivata la notizia?
SC: Sì, come l’ha detto mio zio lì che aveva la radio lui che avevano fatto il patto con Hitler e, però il giorno preciso non mi ricordo, perché ero una bambina, eh. Mi ricordo quel giorno qui, quando hanno ammazzato quei partigiani lì.
ZG: Mi racconti pure.
SC: Ecco. Quel giorno qui era il 26 aprile del 1945. Il 25 aprile la radio aveva detto che la guerra era finita. Il 26 aprile del 1945, mentre sorgeva l’alba della liberazione, cadevano al loro posto di combattimento Casiraghi Eugenio di anni 37, Del Vecchio Luigi di anni 42 e Grassi Erminio di anni 22. Erano partigiani della 44esima Brigata Matteotti. E sono stati i fascisti di questo rione, di Trenno, perché prima si chiamava Trenno, e sono stati i fascisti a dirli, ‘andate lì in via Novara che arrivano i partigiani, vi danno dei sacchetti di roba da mangiare’. Loro c’hann creduto e quando sono stati lì all’altezza lì dove c’è l’Harbour in via Cascina Bellaria e lì li hanno ammazzati dentro in un fossettino. Li hanno fatti buttare dentro, li hanno detto di andare dentro nel fossettino, li hanno uccisi loro, i fascisti di Trenno. E meno mal che el mi mari non è andato perché doveva andare anche lui, assieme al Grassi Erminio che era suo amico.
ZG: Si ricorda perché li uccisero?
SC: Eh perché erano partigiani e non erano fascisti. Perché qui ce n’erano diversi eh di fascisti a Trenno.
ZG: Dei fascisti, cosa è successo dopo, insomma a queste persone che?
SC: Dei fascisti, c’erano dei fascisti che abitavano a Trenno e erano lì in via Novara dove adesso c’è la Rete, l’albergo, il ristorante La rete che adesso è chiusa. Erano lì in via Novara e siccome, come le ripeto mio papà era un socialista e non aveva la tessera dei fascisti, mio papà e dieci altre persone assieme a mio papà li hann portati lì in via Novara e li han dato giù una bottiglia di olio di ricino da bere di mezzo litro a tutti e dieci, che son stati male dopo per cinque o sei giorni, ecco. Erano gente, amici qui di Trenno, proprio che si conoscevano.
ZG: E dopo la guerra, a questi fascisti qua cosa è successo?
SC: E dopo la guerra meno mal chi mort, pace all’anima sua che son morti senza ammazzarli noi, perché l’odio c’era eh solo che beh io ero una bambina, però mio papà e gli altri suoi amici che sono andati là a bere l’olio di ricino avevano voglia di ucciderli loro. Invece son morti. Dopo la guerra a uno a uno sono andati tutti e cinque, che abitavano lì in via Rizzardi avanti.
ZG: Tornando, diciamo, alla guerra, ai bombardamenti, lei cosa faceva durante la guerra, lavorava ha detto, e dove lavorava?
SC: No, ho lavorato due anni all’ippodromo San Siro a tirar su i sassi, però per tre o quattro mesi. Poi ho incominciato a imparare a fare la rammendatrice, a quindici anni ho imparato a fare la rammendatrice, poi sono andata a diciassette in una ditta in via Lario che andavo in bicicletta da qui fino là in via Lario che è vicino al Niguarda in bicicletta anche se pioveva in mano la bicicletta con mano l’ombrello e andavo là a lavorare, fare la rammendatrice. Che lavoravamo i tessuti che venivano da Biella per il Galtrucco di Milano.
ZG: E Le è mai capitato che suonasse un allarme antiaereo quando era sul posto di lavoro?
SC: No, no, perché lì ho cominciato a diciassette anni.
ZG: Quando… quindi l’allarme antiaereo le è capitato che suonasse solo quando lei era ancora a casa.
SC: Quando ero a casa che stavo imparando a rammendare in via Belfiore, allora lì sì anche lì che ero lì imparare a rammendare è suonato l’allarme e mi ricordo che la proprietaria del negozio lì dove stavo imparando aveva la casa dove c’è adesso il, prima c’era il Zenith in Corso Vercelli all’inizio e adesso invece mi sembra che c’è una libreria, prima c’era il Zenith, e lei abitava lì e una bomba è andata giù e ha buttato giù tutto e lei è rimasta senza casa né niente. Meno male che era lì nel negozio e che ero da sola, è stata lì e mi ricordo che eravamo lì quando è suonato l’allarme siamo andati in un’altra casa che avevano anche lì la cantina e siamo andati lì. Però eravamo in via Belfiore e la bomba è andata giù in Corso Vercelli. Anche lì un bello spavento perché dopo avevo paura a venire a casa perché venivo a casa a piedi da lì eh. Dopo non passavano più né tram né autobus perché andando giù la casa avevano ostruiti anche il passaggio dei tram che arrivavano fino a qui in Perrucchetti.
ZG: Quando eravate nei rifugi, nelle cantine, come passavate il tempo?
SC: Pregando. Pregando tutti, anche gli uomini, che rispondevano [pauses] Nella paura, eh.
ZG: Si ricorda che preghiere facevate?
SC: L’Ave Maria e il Padre Nostro. C’erano le donne più anziane che dicevano “oh Signur, oh Signur, e tont i, e tont i” e poi “Padre Nostro, che sei nei cieli”, poi si ripeteva tutti. E l’Ave Maria.
ZG: Ehm, quando poi finiva l’allarme, come lo sapevate che era finito l’allarme?
SC: Perché suonava, suonava il cessate allarme. Suonava e allora ci guardavamo tutti in faccia, ci abbracciavamo noi bambini e i più grandi e poi ‘ciao ciao’ e si tornava a casa, perché magari durava un’ora, un’ora e mezza, e anche due. Di giorno era un conto ma di notte era un altro.
ZG: Lei si ricorda cosa è che la sconvolgeva di più quando eravate in cantina? Qual’era il ricordo più forte che ha?
SC: Il pensiero che andasse giù una bomba dove c’era la mia casa. Come quei terremotati che sono là adesso là, che hanno sempre il pensiero di dire ‘la casa non c’è più, cosa facciamo‘. Lì è proprio una guerra anche lì eh.
ZG: E invece sulla strada per casa come tornava? Lei era sempre con i suoi genitori?
SC: Sì sì tutti e cinque si andava là quando suonava l’allarme. Di giorno no perché il papà era all’ippodromo. E se capitava di giorno andavo io con i miei fratelli e la mamma. Ma la maggior parte era di notte.
ZG: Lei per caso aveva parenti che combattevano al fronte?
SC: Nella seconda, non nella terza. Che sono morti, che c’è qui la scuola di Trenno ci sono due aule con il nome dei fratelli del papà, Colombo e Colombo, che sono morti nella seconda guerra mondiale.
ZG: E dove sono morti, lei lo sa?
SC: Non lo so, non lo so perché io è già un dispiacere il papà quando gli hanno dato il nome alle due aule io andavo a scuola lì dopo. Però lui non mi ha mai detto niente e io non chiedevo niente.
ZG: Invece ha, per caso aveva parenti che invece lavoravano nell’industria bellica?
SC: No, avevo parenti che sono andati coi tedeschi. Una zia e una cugina.
ZG: Le va di…
SC: Mamma e figlia. Con due tedeschi.
ZG: Ma che sono andati a vivere proprio in Germania?
SC: No, che sono andati lì in casa sua, in via Lampugnano al 170 la sera. Andavano lì e la figlia è rimasta gravida, il figlio che è nato era proprio un tedesco, non era figlio di un mio cugino marito di lei.
ZG: Come, che ricordo ha dei tedeschi durante l’occupazione?
SC: Paura. Loro quando erano venuti qui alla scuola, venuti qui alla scuola che passavano allora alla via Lampugnano c’erano giù i sassi e con i due, le beole che dicevano i trottatori, ecco. Prima di tutto non c’erano luci perché c’era un lampione qui in, la piazza dicevano la piazza dove c’è adesso il semaforo. C’era un lampione lì, poi ce n’era uno là vicino alla scuola, può immaginarsela la strada tutta buia. Ma quando passavano i tedeschi con quelli scarponi lì. Io avevo la finestra proprio sulla, la camera sulla via Lampugnano e facevano rimbombare anche i vetri, perché allora i doppi vetri non c’erano. Che passavano e cantavano e con quelli stivaloni lì facevano una paura enorme guardi. Io li guardavo dalla finestra, guardavo giù ma avevo una paura, avevo quattordic’anni, quindici eh.
ZG: Lei non ha avuto nessun episodio in cui le è capitato di avere a che fare con i tedeschi?
SC: No no.
ZG: Quando la guerra è finita, si ricorda il giorno della liberazione?
SC: 25 aprile, il 26 hanno ammazzato questi qui.
ZG: Ma si ricorda di come le è arrivata la notizia che la guerra è finite?
SC: Sempre lì dallo zio, che aveva la radio perché in casa mia fino a diciott’anni non c’era né radio né giornale. Leggevo il giornale perché me lo passava mio zio che lo comperava lui, se no... Ecco dopo mi ricordo che eravamo in quattro cinque amiche e in via Novara, adesso non ricordo quella via lì, dove c’è la posta che va giù, quella via lì non mi ricordo, che si va giù in fondo c’è la caserma, c’è la caserma e lì c’erano gli americani. Allora quelli più grandi sono venuti a casa e l’hann detto che noi eravamo là all’oratorio, era domenica si andava all’oratorio, si andava in chiesa il pomeriggio poi si andava all’oratorio dalle suore, e son venuti a casa e c’hann detto ’andate lì, andate lì che gli Americani sono là alla finestra, se vedono le bambine’. Allora io avevo quindic’anni, sedic’anni, ’se vedono le bambine o le ragazze, buttano giù le tavolette di cioccolata’. Allora si andava a piedi fino a là e c’hann buttato giù le belle tavolette di cioccolata ma bisognava tagliarlo col coltello talmente era alto era buonissimo. Ecco il ricordo degli americani al confronto con i tedeschi.
ZG: Prima ha detto che suo marito da ragazzo era stato partigiano.
SC: Sì, era partigiano, era amico con questi. Dopo quando i fascisti, lui non so se l’ha sentito tramite qualcun’altro, i fascisti gli hann detto ’andate in via Novara perché arriva una colonna di partigiani vi danno qualche sacco di roba da mangiare’. Sono stati i fascisti a dirglielo. Loro sono andati ma quando sono stati lì in via Bellaria all’altezza qui dove c’è la lapide che l’ho fotografata ieri mia figlia quando m’ha portato a casa, e dopo io ho scritto tutto quello che c’era scritto e c’era la lapide lì e lì c’era un fossettino perché erano tutti campi prima, c’era un fossettino che passava l’acqua, li hann fatti sdraiare lì e li hanno uccisi loro, fascisti di Trenno. Ma mio marito non è andato e si era nascosto in un solaio ed un altro suo amico in via Luigi Ratti, s’era nascosto lì nel solaio, è rimasto lì per due giorni che li portava su da mangiare il suo amico perché aveva paura che i fascisti magari lo vedessero in giro e …
ZG: E si ricorda che cosa faceva come partigiano suo marito prima della, durante la guerra?
SC: No, no, perché [unclear].
ZG: È un argomento di cui non avete mai parlato?
SC: No, no, perché poi lui è andato a studiare in seminario perché il papà aveva un tumore alla faccia, aveva un tumore alla faccia e la mamma faceva la magliaia e sua so, le è morto un fratello a diciotto anni del tifo ma quello non c’entra niente e lui voleva andare avanti a fare il liceo ma la mamma gli ha detto io non posso, non posso perché … allora lui per poter avere il diploma lì del liceo è andato in seminario a studiare. Ha parlato, la mamma ha parlato coi missionari, è andato là è Madonna non ricordo il nome, è vicino a Monza, è venuto a casa che aveva il liceo ecco però non eravamo ancora fidanzati e sapevo solo quello.
ZG: Le ragazze di cui ci parlava prima, che erano andate coi tedeschi, dopo la liberazione cosa le è successo, lo sa?
SC: No. È successo che l’ha saputo tutto il paese. Una era mia zia eh, che non era una ragazza, e l’altra era mia cugina sua figlia, che si era appena sposata è rimasta incinta ma quando è nato il figlio, per non dire che non è stato il marito perché non era giusto, che mancavano più di, quasi tre mesi, hanno detto che era un settimino, per non dire di sei mesi. Che poi il figlio era proprio un tedesco. Tedesco di nome no, ma di fatti. Ma di fatti.
ZG: In generale, qual’è il ricordo più forte che ha della guerra, quello che le è rimasto più impresso?
SC: Quando ho fatto la via Novara che ho visto quelle tre persone con tutte le, le cose fuori dalla testa. Le cervella, che sembrava la cervella che si prende dal macellaio per impanare e mangiarla. Ecco, l’impressione più brutta era quella [pauses] che mi è rimasta, perché qui in pratica qui a Trenno non è successo niente all’infuori di questo che dopo siamo venuti a conoscenza e odiavamo quei ragazzi lì. Che fra l’altro il fascista di questi adesso c’è l’Ambrogio Giroli era suo zio.
ZG: Torniamo di nuovo ai bombardamenti. Cosa, cosa le dicevano di chi bombardava?
SC: Eh, che erano i tedeschi. Dopo a volte dicevano che erano gli americani, invece erano i tedeschi. E poi mi ricordo, mi spiace che non la trovo più perché quando hanno ucciso il Duce in Piazzale Loreto con la Petacci, io avevo la fotografia che è andato mio marito a fargliela. E avevo una cartolina. Non la trovo più, non la trovo più, non la trovo più, l’ho cercata apposta per farvela vedere a voi.
ZG: È una foto che le ha fatto…
SC: Che le fatto mio marito in Piazzale Loreto col Duce appeso in Piazzale Loreto e la Petacci e altri due.
ZG: Cosa pensava di chi la bombardava, lei?
SC: Cosa pensavo. Che erano dei disgraziati. Ma disgraziato più è stato il Duce che ha fatto il patto con Hitler, eh. Però essendo una bambina non avevo radio, non leggevo giornali.
ZG: Degli inglesi invece cosa pensava?
SC: Io non so perché, io ho pensato solo agli americani. Degli inglesi non pensavo niente.
ZG: E degli americani?
SC: E degli americani pensavo bene, perché sono venuti a liberarci, eh. Che quando sono arrivati gli americani la prima volta che gli abbiamo visti sono arrivati lì con quelle jeep, non so io cos’erano, in fondo a via Lampugnano che adesso c’è il Palatrussardi ecco, siamo andati fino a là per vederli. Perché si erano fermati là e noi da qui a Trenno, noi ragazze, che avevamo quindici anni, sedici, siamo andati, chi diciassette, chi diciotto.
ZG: Ci hanno raccontato di un episodio di un bombardamento alla Cascina Bellaria.
SC: Bravo.
ZG: Lei se lo ricorda?
SC: Bravo, sì, bravo.
ZG: Si ricorda l’episodio?
SC: Sì non mi ricordo ma so che è andata giù una bomba lì alla Cascina Bellaria, ma allora era tutto prato lì. Il parco lì proprio c’era solo la cascina e basta.
ZG: Per caso si ricorda l’anno?
SC: No.
ZG: Invece ha mai sentito parlare del Pippo?
SC: Pippo? Cos’è il Pippo?
ZG: Un modo di dire in alcune parti di Milano in cui si parlava di un aereo che volava, un solo aereo che volava di giorno e di notte sopra la città.
SC: Mai sentito.
ZG: Senta, invece adesso che cosa pensa di chi la bombardava?
SC: Eh, cosa penso. Che erano dei maledetti, che cosa si pensa? Che cosa si può pensare? Io devo dirmi fortunata perché dei miei parenti nessuno è stato, è stato preso, diciamo, nei bombardamenti o, però la paura che c’era…
ZG: Invece, finita la guerra, la vita com’è cambiata lei e la sua famiglia?
SC: Eh un po’ diversa perché ho cominciato a lavorare, facevo rammendi, mi ricordo che il primo rammendo che ho fatto qui a Trenno, un buco di sigaretta in una giacca e ho preso cento euro [sic]. Un buco di sigaretta e ho preso cento euro [sic]. Allora, perché allora facevano anche rivoltare le giacche. Chi faceva l’impiegato consumava tutta la, il bordo qui della giacca e allora me lo portavano qui e io lo rammendavo. C’era il trucco. Si faceva così, ecco, e mi ricordo che ho cominciato a star bene lì. E mi ricordo che avevo diciotto anni e ho preso le prime calze di nylon, se no c’erano i calzettoni di cotone fino al ginocchio. Le prime scarpe che ho preso avevo il 35, mio papà mi ha preso il 38 perché ha detto che dovevano durare tre o quattro anni, che il piede si allungava. Quando non ci è stato più dentro il piede, li ha portati da un calzolaio qui a Trenno che era anche un cugino, Colzani, m’ha tagliato il tallone e ha lasciato il cinturino per fare i sandali, però metà tallone era giù fuori dal tacco delle scarpe. E dopo ho dovuto metterle via, pulirle bene per mia sorella. E al tempo di guerra, a Natale, ci si alzava sul tavolo là in cucina c’era per me e mia sorella perché allora mio fratello era ancora piccolino, un mandarino, un torroncino Sperlari nella scatoletta di cartone che era più bella la scatoletta che il torrone che c’era dentro, cinque spagnolette, torroncino, cinque spagnolette, il mandarino e una bambolina di pezza che ha fatto mia mamma, che dovevo tenerla in mano a Natale, Santo Stefano, poi metterla via per mia sorella. Quello era il Natale, in tempo di guerra. E il panettone, tagliava il panettone di mezzo chilo perché quello da un chilo non si poteva prendere, mezzo chilo lo tagliava, lo tagliava tre quarti, un quarto lo metteva via per febbraio, San Biagio come tradizione.
ZG: Bene. Per noi siamo a posto così

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Zeno Gaiaschi, “Interview with Santina Colombo,” IBCC Digital Archive, accessed April 25, 2024, https://ibccdigitalarchive.lincoln.ac.uk/omeka/collections/document/410.

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