Interview with Paolo Bottani

Title

Interview with Paolo Bottani

Description

Paolo Bottani recalls wartime memories of a working-class family in Milan. Describes the widespread enthusiasm for the declaration of war, followed by a relatively calm period. Mentions alarms as greeted initially with joy because classes stopped and the care-free attitude of children who used to salvage shell casings for their scrap value. Recounts the first bombing he witnessed when in Crema and gives a detailed account of the Precotto primary school bombing, where he was trapped underground and brought to safety by the effort a rescue party. Describes the aftermath of the bombing on the surrounding areas and explains how the authorities presented him as evidence of the Allies’ brutality. Recalls his life as evacuee: fear, hunger, cold and painful frostbites; disrupted communication; destroyed bridges replaced by precarious footbridges, strafing. Recollects events at end of the war and describes head-shaved female collaborators paraded in shame. Mentions a life-long distress reaction to sirens and connects his strong pacifist stance to the experience of being bombed.

Creator

Date

2016-12-02

Temporal Coverage

Coverage

Language

Type

Format

00:33:25 audio recording

Rights

This content is available under a CC BY-NC 4.0 International license (Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0). It has been published ‘as is’ and may contain inaccuracies or culturally inappropriate references that do not necessarily reflect the official policy or position of the University of Lincoln or the International Bomber Command Centre. For more information, visit https://creativecommons.org/licenses/by-nc/4.0/ and https://ibccdigitalarchive.lincoln.ac.uk/omeka/legal.

Contributor

Identifier

ABottaniP161202

Transcription

EP: Come prima domanda le chiedo di cominciare da prima della guerra, prima che cominci il conflitto, eeh mi racconti un po’ della sua famiglia, eeh dove eravate e di che cosa si occupavano i suoi familiari.
PB: Sì eh prima della guerra naturalmente ero piccolino quindi la memoria un po’ un po’ un po’, un po’ annebbiata diciamo così. Però mi ricordo bene che la mia famiglia era una famiglia di operai, eeh immigrati, mio papà proveniva dalla provincia di di Piacenza e mia mamma dal cremasco, eeeh erano operai purtroppo mio papà viveva un momento difficile per le sue idee politiche, non voleva iscriversi al partito fascista che era per la maggiore a quei tempi e non gli davano il lavoro perché lui non era iscritto al partito, quindi questo m’è rimasto impresso benché piccolino, perché la famiglia di conseguenza ne ne soffriva. Mia mamma invece era volgitrice di motori elettrici alla Ercole Marelli di Sesto San Giovanni. Avevo una sorella che era impiegata presso una ditta di cosmetici, la Beiersdorf. Ecco questo è quello che mi ricordo del periodo anteguerra. Nel 1940 poi, mi hanno iscritto alla prima elementare come tutti i bambini ed ho frequentato qui a Precotto la prima classe, elementare. Mi ricordo che eravamo tanti bambini, oggi si lamentano delle classi affollate, noi eravamo in quaranta, quindi la maestra della quale mi ricordo il nome, Angela Arpiani, era una brava signora torinese e ci aiutava parecchio perché eravamo abbastanza discoli eh: che i genitori al lavoro, noi eravamo a casa da soli, non c’erano le badanti o le babysitter o, eravamo in giro per le strade, qui a Precotto era una zona rurale, c’erano campi, e noi ci ci divertivamo ad andare per i campi. Quindi la prima e la seconda elementare direi che, essendo pure in guerra, perché la guerra è cominciata nel ’40, non abbiamo subito parecchie eh diciamo difficoltà, a parte la faccenda di mio papà che non lavorando era costretto a fare dei lavoretti così un po’ in nero, si dice oggi, per poter portare a casa qualcosa, e poi aveva l’orto che lo lavorava e ci dava la possibilità di, di vivere ecco. Il brutto comincia verso la fine del ’42 l’inizio del ’43, cominciarono i bombardamenti, cominciarono le difficoltà della vita. Ecco lì ho cominciato a mettere nella mia mente le difficoltà proprio, di vivere, molti disagi come per esempio il freddo, la paura, il freddo la paura, e la fame, e la fame, cominciava a scarseggiare il cibo. Il freddo era terribile perché difficilmente avevamo la legna per bruciare, andavamo in giro a raccogliere qualche pezzettino di albero, di di ramo rotto degli alberi, portarlo a casa noi bambini per poter scaldarci, però era la fiammata del momento e quindi il calore era molto, molto scarso. Poi eeeh i geloni: col freddo la conseguenza logica per noi bambini erano i geloni sulle mani sui piedi, eeeh oggi non vedo più i bambini con i geloni, ma io mi ricordo facevano male, molto male questi geloni. Specialmente quando la mamma ci lavava, ci faceva il bucato come si dice nel mastello in casa, eeeh i geloni venivano fuori, col calore, un dolore immenso proprio. Poi c’era la paura del, dei bombardamenti delle sirene: ecco io una cosa che ancora ho in mente adesso quando sento una sirena, scatta dentro di me come una una un uno stato psicologico che mi richiama quei momenti là che dovevo scappare, è rimasto in me. Perché la sirena era sinonimo di bombardamento ‘Scappa, scappa!!’ perché arrischi la vita. E quindi questo qui è continuato per alcuni anni fino al ’45 e devo dire però, nel ’42 finita la seconda classe, mia mamma e mio papà decisero, visto che cominciavano a bombardare Milano, di spedirmi, di mandarmi a casa di mia zia a Crema, come sfollato. Quindi non non, vi immaginate anche lo stato di disagio trapiantato in un’altra località, nuovi nuovi bambini da conoscere, un modo di vivere che era differente dal mio purché simile, per carità, però molto differente. E così sono stato a Crema per, per un paio d’anni, però a Crema bombardavano, quindi la situazione era pressoché identica Milano Crema, non sapevi più dove andare, ecco. E mi ricordo che una volta mi hanno portato a casa, per vedere la mamma, mio zio, e nel ritorno, quando siamo ritornati a Crema, la difficoltà è che il treno arrivava fino a Cassano poi c’era il ponte sull’Adda, naturalmente bombardato, e quindi noi dovevamo traversare su una passerella larga poco più di di, circa un metro, sopra il fiume con un corrimano da un lato solo e dovevamo attraversare questo fiume di sera, al buio, e mi ricordo ancora il vortice delle acque che correvano sotto e m’ha creato uno stato di paura veramente notevole, però era l’unico mezzo per poter andare a prendere il treno dall’altra parte per poi proseguire per per Crema. Quindi anche quello lì uno stato di disagio. Dicevo prima, Crema veniva bombardata come Milano più o meno perché c’era il ponte sul fiume Serio e ogni due per tre erano lì gli aeroplani, e lì ho provato una sensazione durante il bombardamento. Dunque Crema non era attrezzata coi rifugi come Milano, a Milano quasi tutte le case avevano i rifugi sotterranei negli scantinati, Crema invece non c’era questa, non credevano che venissero a bombardare, erano meno preparati. E quindi si rimaneva in casa, si rimaneva in casa, rimanendo in casa lo spostamento d’aria, io mi aggrappavo a mia zia in un angolo della casa perché sentivi la casa che ‘Ooooooh cade cade cade!’ ci aggrappavo a mia zia perché avevo la sensazione che la casa, la casa cadesse, veramente una sensazione terribile. A crema poi invece ho subito un mitragliamento, e lì l’ho scampata proprio per poco: venivano i caccia, lì passavano le colonne tedesche che da Cremona andavano a Milano e una volta noi eravamo bambini, giocavamo per strada eeeeh è arrivato un paio di caccia, ma così all’improvviso senza neanche suonate le sirene, che se suona le sirene noi scappavamo. Arrivano sti caccia ‘Aaaaaaaaaa papapapam’ cominciarono a sparare, noi non sapevamo più dove andare, le pallottole ci battevano ai fianchi del del, sulla strada, e io un bel momento mi sono buttato dentro ad una porta che ho trovato e poi il caccia è passato, via andato con la sua bella scaricata di pallottole, e fortunamente [sic] non ha colpito nessuno ecco. Poi dopo, quando sparano le mitragliatrici, diciamo rifiutano i bossoli delle delle delle pallottole, noi bambini andavano a raccoglierli, andavamo a raccoglierli perché dopo li vendavamo, perché era ottone e quindi l’ottone aveva un significato anche saltar fuori la mancetta per per comperarci qualche caramellina, quando c’erano eh. Quindi l’esperienza di crema è stato un po’, un po’ pari a quella di Milano ecco, l’unica cosa che che che, la difficoltà scolastica perché da una scuola all’altra quindi ho avuto delle difficoltà. Poi, come dire, ecco una cosa che ho imparato, ho imparato il dialetto cremasco cose che invece qui parlavo in milanese ecco e quindi mi è servito anche quello. Quindi i miei genitori vedendo che bombardavano Crema e bombardavano a Milano allora tanto vale che tu ritorni a Milano. Ecco e allora mi han riportato, terminata la la quarta classe, mi riportano a Milano e mi iscrivono alla scuola qui di Precotto. Ironia della sorte, io dovevo andare, perché a Precotto non c’era più posto, alla scuola di Gorla dove c’è stato quell’eccidio di duecento morti. Fortuna, destino, mia mamma è andata a brontolare col col provveditore, il direttore, un certo Peroni (mi ricordo anche il nome) certo Peroni, è riuscita a farmi tornare a Precotto, perché noi venivamo dalla parte opposta della scuola, quindi era molto distante, andando a Gorla raddoppiavamo la strada, allora il il direttore là si è un po’ convinto e ci ha concesso di ritornare a Precotto eh ecco e quindi questo qui mi è andata anche bene. Ecco la vita a Precotto durante la guerra: era terribile, la paura era tanta, la paura era tanta, come dicevo prima le sirene poi a Milano suonavano alla gran più bella, però noi ormai bambini eravamo abituati a a questo genere di vita, perché nonostante tutto noi bambini giocavamo, perché c’era pericolo, c’era la fame, c’era il freddo però si giocava, con quello che c’era, coi giochini lì di poco conto che si potevano racimolare allora, e giocavamo. Poi eeeeh è venuto quel triste giorno del del bombardamento della scuola: ci siam recati a scuola eeeh va beh è venuto non so se devo raccontare il fatto ma penso che sia ormai risaputo, beh comunque mi han tirato fuori dalla scuola eeeh sano e salvo, tutto imbiancato, tutto impolverato. Ecco l’unica cosa che posso dire che è anche un qualche cosa che fa un po’ ridere, mia mamma era al lavoro a Sesto, io sul viale Monza che stavo andando a casa, non c’era in giro nessuno, ecco una cosa che mi ha messo anche paura, ero solo per strada, non c’era nessuno neanche un’anima proprio, tutti richiusi per per il timore del bombardamento, ed ecco che appare un un un signore in bicicletta, non so neanche chi fosse, io l’ho considerato un angelo custode dopo, che mi fa, io non so mi esprimo in dialetto ‘Uè tì nani in doe te vè?!’ cioè ‘Tu bambino dove vai? ‘Eh sun drè andà a ca’’ ‘ Cià ven chi che te careg in mi su la cana della bicicletta e te porti a cà’. Perché io ero a quasi, quasi un chilometro la mia casa da quella zona lì. E così mi ha portato a casa, arrivo a casa, mia mamma non c’era, mio papà neppure, tra l’altro non erano neanche al corrente che era bombardata la scuola. Arrivano, no arrivo io veramente, arrivo io e mio zio ‘Oh vin chi poverino vieni qua che ti met tuto sporco, bagnato’. Io avevo una sete terribile perché il bombardamento ti lascia la polvere in bocca e il sapore di zolfo. ‘Vieni qui che ti do un bicchierino di Fernet’ [laughs] io quella volta lì m’han dato da bere il Fernet, una porcheria solenne, non ho bevuto più il Fernet in vita mia. Ecco, dopo questa esperienza che grazie al cielo ne sono uscito, ecco i miei genitori mi rimandano a Crema [laughs] perché qui le scuole non c’erano più eh, tanto è vero tanti miei amici qui a scuola uno andava presso una mensa, quell’altro presso uno stabilimento, quell’altro presso l’oratorio della chiesa, cioè le varie classi le hanno smistate. Io invece mi hanno mandato a Crema e ho completato gli studi elementari lì a Crema, ecco. Questo qui è a grandi linee la la mia esperienza di guerra, però quello che mi ha segnato maggiormente è stata la lontananza dalla, dalla mia famiglia per un certo periodo, il freddo la paura, la paura, la paura anche del del Pippo che di notte veniva a sorvolare la città e tutti avevamo timore le finestre, chiudevamo tutto, spegnevamo la luce che temevamo che questo Pippo qui sganciasse qualche, qualche bomba ecco, quindi questo qui è a grandi linee eh, il dopoguerra. Il dopoguerra è stata, è stato bellissimo, cioè siamo rientrati, però mi sono rimasti i segni tanto è vero che quando suonavano le sirene degli stabilimenti, io abitavo vicino a Sesto e a Sesto c’erano tanti stabilimenti, io scattavo come una molla e e partivo per cercare rifugio però dopo sapevi che oramai è finito, però è rimasta dentro ancora quella quella quella sensazione lì di scappare, fuggire, fuggire la paura era terribile, il bombardamento è brutto eh, i bombardamenti son brutti. Quando andavamo in rifugio in braccio a mia mamma che bombardavano qui a Milano, tremavo come una foglia, era il mese di agosto eh ero lì che tremavo ‘Eh ma tu sta fermo Paolo sta fermo, sta qui tranquillo’ e io tremavo tremavo tremavo, probabilmente l’effetto della paura, col senno di dopo eh non lo so, e così, e comunque la guerra l’è l’è, è una brutta roba dai diciamo così. Poi nel dopoguerra invece non è che le cose andassero meglio eh, grazie al cielo mio ha trovato da lavoro, da lavorare come autista e quindi qualche cosettina si muoveva, però il freddo c’era, perché ancora il riscaldamento non non era avviato, non c’era ancora la legna per bruciare, il carbone cominciava ad arrivare pian pianino, quindi nel ’46 è stato un anno piuttosto pesante ancora che ha risentito dell’essere stato in guerra. Io a scuola mi hanno iscritto ad una scuola di avviamento al lavoro, a Sesto, e andavo a piedi eran quasi tre chilometri, tutti i giorni a piedi andata e ritorno, a piedi andavamo perché mezzi c’erano ma costavano, c’era il tram di Monza che portava là. E quindi andavamo a scuola ma più delle volte d’inverno ci lasciavano a casa perché non avevano la legna per riscaldare le le classi, per cui per noi era una, era una pacchia nel senso che i bambini basta dire di non andare a scuola e tutti contenti ecco. Se devo dire un particolare che del bombardamento eh, quando è suonato l’allarme che i maestri ci hanno indicato la via del rifugio in maniera anche veloce ‘Su su bambini muovetevi che che il pericolo è incombente’ ecco in quel momento lì è scoppiata, e mi ricordo bene, una gioia infinita tra noi ragazzi ma non perché suonasse l’allarme, era era in procinto un bombardamento, no no perché noi smettevamo di fare lezione e quindi eravamo felici beati e contenti, come tutti i bambini del resto eh, vivono la guerra ma anche sanno giocare ecco e questo qui, ho sempre giocato, ho sempre giocato ecco, studiato poco perché va beh, ero a casa sempre da solo nessuno mi mi spingeva a studiare per cui ecco io penso che che.
EP: Vorrei farle qualche domanda sul, su proprio quando è scoppiata la guerra: lei si ricorda che cosa si diceva, che, quali erano i discorsi un po’?
PB: Sì sì mi ricordo che c’era dell’euforia, eran tutti contenti, mi ricordo di questo, sì sì, mi ricordo, vedevo le persone anche i genitori, a scuola, parlavano dell’entrata in guerra dell’Italia, però lo dicevano con una forma ‘Tanto si vince, porteremo a casa la ricchezza, staremo meglio’ e quindi c’era una euforia, c’era euforia, c’era euforia. Fino al ’42 eh, poi ha cominciato a spegnersi e poi dopo è successo quello che sappiamo un po’ tutti immagino.
EP: Ehm riguardo invece appunto l’esperienza del bombardamento, lei si ricorda che cosa succedeva dentro il rifugio, quali erano un po’ le cose che si facevano?
PB: Ah sì sì guardi, siamo rimasti in rifugio, da quando è suonato l’allarme, è scattato l’allarme, saran passati due o tre minuti, perché la scuola di Precotto era su un piano terra no e quindi entrare in rifugio, a parte qualche fatto un po’ unico che non è riuscito ad arrivare in rifugio ed è morto, però noi bambini siamo riusciti a scendere abbastanza velocemente. E dicevo prima, in forma anche abbastanza gioiosa, cioè non pensavamo certamente che venivamo bombardati, eravamo contenti perché, dicevo, abbiamo smesso di far lezione e via era felicità no, e quindi eravamo gioiosi, quindi nel rifugio giocavamo, ah i soliti spintoni ‘Ti ohe, aaah bim bum’ le solite cose dei bambini. Poi a un certo punto, dopo pochi minuti eh, perché è successo quasi subito, si spegne la luce, oibò, si spegne la luce poi cominciano, un boato enorme, tremato tutto cominciato a cadere i calcinacci, polvere, odore di zolfo, bambini che piangevano, altri che che si lamentavano, uno era sporco tutto di sangue, e allora lì è cominciato a essere un po’ una faccenda più più seria ecco. Io come dico però, nonostante tutto, non ho perso la calma, sinceramente, dico la verità, ero abbastanza tranquillo, paura sì, ma tranquillo, e poi dopo pian piano dopo dieci minuti circa, la sapete immagino la storia di quel sacerdote che che, don Carlo Porro, il quale ha intuito che han bombardato la scuola, è corso subito, e assieme a tre o quattro volontari, ha aperto un pertugio perché ha capito che eravamo ancora sotto, ha aperto un pertugio e lì ha cominciato a sfilarci. Io sono stato il penultimo a uscire, ci mettevamo in coda, i maestri, devo dire i maestri abbastanza coraggiosi, devo dire, sì perché sono stati capaci di mantenere la calma e soprattutto di creare un po’ di ordine, quindi ci hanno incolonnati e si è creato una specie di scivolo con le macerie, siamo arrivati al soffitto del dello scantinato e lì c’era questo pertugio, ci prendevano le braccia e ci tiravano fuori come tanti salami no. E lì, poi dopo non succedeva nulla, io mi ricordo che il signore che che c’era lì vicino ‘Ecco ades te sè fora’ parlo in dialetto scusatemi eh ‘Te sè fora, va cur cur a ca’’. E io mi dicevo ‘Mah cur a ca’?! Cur a ca?! Ma dove vado?’ era tutto bombardato, non sapevo più dove fossi. Quindi vai di qui, vai di là, dove sono? Dove vado? Non c’era nessuno, ma in un bel momento mi sono ritrovato in una via che conoscevo, via Bressan, e di lì sono entrato su viale Monza e poi ho incontrato quel signore in bicicletta che mi ha portato a casa, però primo momento, sono rimasto veramente scioccato perché, mi hanno detto ‘Vai a casa, vai a casa corri vai a casa che c’è ancora pericolo’ [coughs] però vai a casa, era era difficile perché non si capiva più nulla, poi sul viale c’erano il tram, che era stato divelto dalla dalla, dai binari del tram, era lì mezzo su mezzo giù, un cavallo poveretto con uno zoccolo tagliato via, perdeva sangue, si lamentava, tutte scene di questi tipo, no? Terribili, però persone nessuna, ecco ripeto, una delle cose che mi ha colpito, la solitudine che mi son trovato quando mi han tirato fuori dal dal rifugio, ero proprio solo, c’era nessuno, no ‘E adesso cosa faccio io?’, dopo ho trovato quel signore lì che mi ha portato a casa ecco.
EP: Ehm tra, tra i bambini della classe, lì nei giorni, nei momenti successivi al bombardamento, ne avete riparlato, è stato un argomento anche?
PB: No. Come dico, io non ne ho riparlato coi miei amici perché m’han portato a Crema. Ecco a Crema, lì la direzione, i maestri, la propaganda fascista, diciamolo così, eeeh mi hanno accolto come, non dico come un eroe ma come uno che che, che che ha compiuto un atto bello, doveroso no, perché ‘Eh bombardato, eh qui, gli americani assassini!’, cioè la solita propaganda del regime, e quindi mi han fatto ergere a eroe, detto così in parole, e quindi non ho potuto parlare con, con i miei amici, dopo nel ’46 li ho rincontrati però oramai era finita la la, e quindi non ne ho parlato perché mi hanno portato via subito, per cui, e ho avuto quella esperienza qui del, di Crema.
EP: E appunto anche dopo la guerra c’è stata occasione di rincontrare le persone che avevano avuto quella esperienza?
PB: Sì ma non ne parlavamo, no, non ne parlavamo. Probabilmente c’era un silenzio, un silenzio anche timoroso di dover rievocare situazioni tristi, di paura, di di sofferenza, probabilmente questo, no non ne abbiamo mai parlato, no, no.
EP: E riguardo eeh la fine della guerra proprio, lei si ricorda i giorni finali, che, se se ne parlava, che cosa si diceva.
PB: Sì sì sì. Io mi ricordo, dunque ero a Crema, purtroppo, purtroppo, ero lì sfollato, mi ricordo che il 25 aprile una, un gruppo di partigiani, tra l’altro mi hanno colpito anche veramente, armati fino ai denti, con, sembravano dei dei banditi del del, messicani con le con le con le strisce di cartuccere, i mitra, i mitraglieri, e portavano delle donne, ex collaboratrici fasciste che le avevano rapate e pitturate di rosso la testa, ecco passavano per la via lì, così, ecco questo qui mi ha colpito, mi ha lasciato un po’ un po’ come dire, non mi è piaciuta la cosa ecco, non mi è piaciuta, proprio una brutta, un brutto ricordo di quella lì, che poi mi han detto poi che queste donne qui le portavano al campo sportivo e lì le hanno uccise tutte ammazzate, fucilate ecco. Quindi mi ricordo ero lì a Crema ho vissuto questo momento brutte del dopoguerra, della presenza di questi partigiani che erano accaniti, proprio veramente, forse perché sono un tipo tranquillo non non mi, non mi ha sfagiolato tanto ecco quella presa di posizione lì verso quelle donne, anche se colpevoli per carità, io non non voglio giudicare, però quel trattamento lì, così meschino no, non mi è piaciuto ecco dico la verità questo. Poi dopo nel periodo della fine della guerra c’è stata la la la come dire, la restituzione delle armi, mio zio aveva lì tre moschetti che aveva nascosto quando l’8 settembre molti militari hanno lasciato il reggimento per ritornare a casa, quando è stato l’armistizio dell’8 settembre, e mi zio aveva accolto tre militari, di Vigevano erano, eeh li han cambiati, gli han dato i vestiti da borghese e lui ha tenuto lì tre fucili e la la divisa, quindi sono andato con mio zio a restituire al comando partigiano, perché c’era l’obbligo di restituzione delle armi occultate durante la guerra, ecco, così mi ricordo questo. Qui a Milano non c’era quindi non non non ho presente, perché la situazione di Crema per per quanto fosse abbastanza indicativa però in dimensioni più ridotte, ecco sì, essendo una cittadina piccolina. Però ecco, un’altra cosa che mi ha colpito, eeeh i tedeschi che prima erano arroganti eh, perché io ho sempre avuto paura dei dei militari tedeschi, anche questa qui è una cosa che, quel modo di parlare loro che per noi era era incomprensibile, duro, forse magari a loro insaputa, però creavano in noi bambini uno stato di timore, di paura, e quando vedevamo i tedeschi, sempre armati di tutto punto eh, io parlo di Milano, vedevamo i tedeschi eeeh scappavamo perché avevamo paura, erano duri proprio, al contrario di quando sono arrivati gli americani, che gli abbiamo incontrati e ci davano qualche cioccolatino la ciuinga, cevingam [chewing gum] lì quello che è, quindi era un altri tipo di rapporto, ma ecco un’altra cosa ho avuto paura dei soldati tedeschi, poveretti come dico magari non non ne avevano intenzione di farci paura, però il loro modo di vestire, di essere armati, il loro modo di parlare così secco duro e ci ci condizionava ecco. E poi ho visto questi tedeschi sempre lì a Crema su una camionetta con questi partigiani qui che li insultavano, li picchiavano, li li, li li come dico si sfogavano un po’ verso questi tedeschi qui, giustamente, ingiustamente lasciamo domineddio a, a giudicare.
EP: Ehm riguardo a chi ha compiuto il bombardamento vero e proprio, che cosa pensava lei da bambino di questi bombardamenti
PB: Guardi a onor del vero noi non pensavamo, non sapevamo neanche chi fossero, certo eravamo come dire spinti dalla propaganda a pensare che chi veniva a bombardare erano degli assassini, ecco questo ce lo avevano inculcato bene eh, perché se voi morite, se voi soffrite, è per causa di quelli là, non di noi che vi abbiamo portato in guerra, ecco questo qui è, è quello che noi eeeh provavamo. Ecco però non sapevo, sapevamo che erano inglesi [emphasis]. Sì, e allora tante volte passavano le formazioni di aerei sopra Milano e andavano, che andavano in Germania a bombardare, noi eravamo lì a contarli ‘Uno, due, tre, quattro, cinque’ era bel tempo, il sole bello, e ci divertivamo a contare gli aerei che andavano, però quei giorni che sono venuti a bombardare eeeh la scuola di Precotto eravamo a scuola non abbiamo potuto contarli [laughs] li abbiamo contati dopo.
EP: Ehm successivamente, cioè una volta adulto, ripensando a quei fatti, che opinione le è rimasta?
PB: Beh l’opinione rimasta è che io odio la guerra, ecco qualsiasi forma di guerra proprio, non riesco a capire la necessità di fare una guerra proprio, io da piccolino ho capito che è stata una guerra inutile, proprio inutile! Quanti miei amici che sono morti ancora piccoli, quanti papà che son morti in guerra, al fronte, quanti, quante mamme nella sofferenza nella fame, quindi cosa ha lasciato? Cos’ha lasciato? Valeva la pena? Cioè è questo che mi pongo. Da adulto ho detto, ma vale la pena? Perché le guerre si differenziano, si differenzieranno dal modo in cui uno la fa ,però è sempre, la finalità è sempre quella, inutile inutile, crea solo dolore, morte, basta non crea niente la guerra non crea niente, non crea proprio niente, questo qui mi è rimasto molto impresso, tanto è vero che io son contrario eh son pacifista a oltranza.
EP: Va bene, io sono.
PB: A posto.
EP: A posto, la ringrazio moltissimo
PB: Ma di nulla.

Collection

Citation

Erica Picco, “Interview with Paolo Bottani,” IBCC Digital Archive, accessed April 26, 2024, https://ibccdigitalarchive.lincoln.ac.uk/omeka/collections/document/249.

Item Relations

This item has no relations.