Interview with Alberto Dini

Title

Interview with Alberto Dini

Description

Alberto Dini reminisces his wartime life in Trieste starting from the declaration of war until the end of the conflict. Describes life under the bombs, stressing disruption of utilities, devastated streets and chequered schooling history. Describes the bombing on the 10 June 1944, mentioning the sense of impending doom he felt immediately before being hit by a blow. Highlights the belief that nothing bad could happen to him and stresses the importance of his positive attitude as a coping strategy.
Mentions childrens pastimes such as mimicking aircraft dogfights, playing Mikado or cops and robbers, trading toy soldiers, cards and comics. Recounts wartime anecdotes: assembling a makeshift Christmas tree, wood-pilfering after curfew and the encounter with a Luftwaffe serviceman who foretold how he would have a career as a pilot.
Mentions how he tried to escape the vigilance of the warden to play hide-and-seek outside and reminisces on life in large underground public shelters: dripping walls, fetid sweat, damp air, and smell of rot. Remembers the omnipresent scent of Melissa (Melissa officinalis) then widely used as a cure for all. Narrates how his elder brother came home after he had witnessed the bombing of Nuremberg and urged his relatives to never use domestic shelters. Mentions Father Placek, a Bohemian priest who disappeared during the war and another member of the clergy who defied the authorities. Describes "Pippo" dropping small bombs, identifying the aircraft as a Storch (Fi 156). Maintains people had a non-judgemental view on bombing and saw the Allies as liberators. He never heard civilians cursing aircrew. Describes how he tried to forget the war until recently. In hindsight, he considers himself a lucky man because wartime hardships gave him a greater resilience that helped him later in life.

Date

2017-01-05

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00:52:49 audio recording

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ADiniA170105

Transcription

AP: Bene signor Alberto, grazie allora, vorrei che lei mi raccontasse qual è il ricordo più remoto che riesce a recuperare, potrebbe essere un ricordo familiare, di cosa faceva con la sua famiglia, suoi genitori, aveva fratelli o amici. Qual è il ricordo più antico che riesce a recuperare?
AD: Il ricordo di che tipo?
AP: Qualsiasi.
AD: Eh è un po’ difficile.
AP: Mm, potrebbe essere un ricordo famigliare o il, che cosa faceva prima della guerra, andava a scuola?
AD: Sì certo, è un ricordo che forse è legato, è condizionato dall’argomento di questa intervista: le giornate che si trascorreva allora nel, all’asilo. L’età era quella, quando è scoppiata la guerra era giuso appena, appena, frequentavo l’ultimo anno del, dell’asilo. Eeeh l’aviazione aveva un suo ruolo allora: l’impresa di Italo Balbo, le, tutte le altre vicende legate ai primi, ai primi mesi di guerra dove era l’aviazione coinvolta e attrice di primo piano. E che anche noi bambini si giocava all’aeroplano mettendo uno davanti con le mani aperte e l’altro dietro con le mani sulle spalle e faceva l’aeroplano. Poi la fantasia andava a sbizzarrirsi e facendo, immaginando combattimenti impossibili eh, ecco questo era così come lei mi ha fatto la richiesta, la domanda sul, visto l’argomento poi che si svilupperà sull’aviazione che ho legato, ho ritenuto opportuno legare come presentazione, e come biglietto di presentazione.
AP: Ottimo. Cosa le veniva raccontato a scuola? Lei mi stava parlando dei momenti in cui la guerra è cominciata.
AD: Sì.
AP: Si ricorda quando è scoppiata la guerra? Se per esempio...
AD: Sì, la dichiarazione, il discorso della dichiarazione di guerra fatta da Benito Mussolini.
AP: Mi parli di quel momento, cosa si ricorda? Dov’era?
AD: Ero in cucina con i miei genitori eeeh si stava ascoltando quanto aveva da dire il capo del governo del momento, il Duce, noto come, come tale. Era venuta da noi una vicina che non era in possesso di un apparecchio radio, perché in quella volta l’apparecchio radio era ancora considerato un lusso. Eeeeh, al momento in cui il, il duce è arrivato a pronunciare la parola fatidica della dichiarazione di guerra presentata agli ambasciatori di Francia e Inghilterra (Gran Bretagna mi pare che l’aveva citata come tale) eeeh la signora che era venuta da noi scoppiò a piangere, quasi un presagio che poi appunto successe che il marito morì allo, nello sbarco in Sicilia delle truppe anglo-americane. Ecco quello è un ricordo che sarà sempre presente nei miei ricordi di guerra.
AP: Capisco. Cos’è avvenuto a scuola? Si ricorda cosa le hanno detto le sue insegnanti? La guerra le è stata spiegata in qualche modo?
AD: No. Era un fatto, quasi una necessità per l’Italia di entrare in guerra per avere allora non, non mi rendevo conto di cosa, come, quando, con chi, ehh era uno stato di guerra che presupponevo fosse uno stato di estrema gravità, ma soltanto sensazioni, niente di concreto.
AP: Ricorda cose, manifesti di propaganda, dei discorsi?
AD: Si manifesti ce n’erano, anche proprio che invitavano a tacere ‘Il nemico ti ascolta’ eeeh non mi ricordo altro così che però era significativo perché ‘Taci il nemico ti ascolta’ era l’immagine di un soldato inglese, tipico il profilo con l’elmo della forma particolare che era in dotazione all’esercito inglese che era questo invito alla riservatezza.
AP: Se lei dovesse provare a spiegare qual era l’atmosfera dei primi mesi o dei primi anni di guerra, che cosa, che cosa si ricorda? Paura, indifferenza, senso di attesa?
AD: Bah eeeh, la partenza, l’arruolamento più o meno forzoso di mio fratello per andare a volontario, perché fra me e mio fratello c’era una differenza di quindici anni dunque lui era in pieno, la persona che poteva risolvere [laughs] i problemi della patria andando pure lui a, a far la guerra. Dunque lui, mia sorella che si era sposata e col marito che era in procinto di partire, destinazione Africa settentrionale. Eeeh uno stato così di, ma quasi un intontimento, un almeno quello che provavo io, tutte queste novità, questi imprevisti, queste queste cose che si sviluppavano con un ritmo crescente, i notiziari di guerra, i bombardamenti, le notizie dei primi bombardamenti sulle città italiane o dei bombardamenti dell’aviazione italiana su malta, Tobruch eeeh nomi che erano abituali, usuali a sentire con la frequenza quotidiana di, di fatti di guerra di questo tipo.
AP: Quindi la realtà non era cambiata molto, continuavate a fare la vita di sempre.
AD: No, no, no. Poi c’era anche qualche altro parente che aveva così questo stato di arruolamento, di provvisorietà o di stacco di quello che era l’attività quotidiana per essere trasformata in un’attività legata all’ambiente bellico.
AP: Si ricorda qualcosa di come la vita di queste persone sia stata trasformata dall’inizio della guerra?
AD: Mah più o meno tutti quanti hanno avuto delle delle trasformazioni nelle proprie abitudini, nelle proprie usanze. Eeeeh un parente, uno zio, fratello della mamma che eeeh era stato coinvolto come, a malavoglia perché so che era una persona ormai vicino alla pensione, che era stato forzatamente imbarcato su una nave che al terzo viaggio poi questa nave venne silurata all’uscita da Pola e lui non fece ritorno, non ritornò a casa appunto perché vittima dello stato d’arme. Eeeeh anche indirettamente c’era sempre qualcosa che faceva riferimento alla guerra, tipo appunto il gioco innocente di due, di più ragazzini che facevano un aereo con le proprie, con i propri arti.
AP: Facevate delle esercitazioni, qualcosa del genere, ad esempio a scuola?
AD: No, esercitazioni no. C’era ecco per esempio il, l’incartamento delle finestre per evitare in caso di spostamenti d’aria di essere feriti da, dai vetri che si, avrebbero potuto, si sarebbero potuti rompere per lo spostamento d’aria o per un’esplosione nelle immediate vicinanze.
AP: Lei mi ha parlato fino a questo momento di questa sensazione di attesa, questo senso di sospensione quasi irreale eccetera, quando è terminato? Quando quando si è trovato con la guerra in casa, quando lei ha avuto esperienza diretta?
AD: È il momento in cui i soldati tedeschi sono arrivati a Trieste, dopo l’armistizio, calcolandoci traditori hanno invaso il Veneto e hanno creato uno stato denominato Adriatisches Küstenland che era una provincia agganciata al Reich, praticamente un’appendice di quella che era Austria ma non era più Austria e questo, l’annessione praticamente di trovarci stranieri senza aver varcato alcun confine. Quello è stata una visione palpabile di un qualche cosa di grave che stava incombendo su di noi.
AP: In quel momento come è cambiata la sua vita, si ricorda come?
AD: No, la mia vita non è cambiata, di molto, mmmh ecco la scuola era stata requisita per ospitare soldati tedeschi, e allora io dovevo andare ben più lontano di quello che ero andato fino ad allora, perché eeeh la scuola era proprio vicinissima a casa mia. Essendo stata occupata dalle truppe tedesche eeh ho dovuto spostarmi.
AP: E questo stato va avanti fino.
AD: Fino alla fine che poi è si, finito con un lungo bombardamento, quotidiano, che è durato più giorni, continuo, di cannone del Castello di San Giusto alla villa Geiringer nel piazzale della, dell’università dove tiravano, sparavano questi cannoni, rispondevano altri cannoni che erano sul crinale del Carso, eeeh soprattutto quando c’era prima, quando c’erano gli allarmi aerei che c’erano incursioni o previste o in corso e allora c’era l’artiglieria antiaerea se no i cannoni di normale dotazione alle batterie del castello di San Giusto, che sparavano verso il Carso per evitare l’avvicinamento dell’esercito Jugoslavo. Ecco son stati due o tre giorni praticamente in cui era meglio restare a casa e non uscire, per evidenti pericoli. Sono uscito da casa il pomeriggio del giorno, di un giorno, uno dei primi giorni adesso non ricordo esattamente, quando si è capito, per quelle cose che in tempo di guerra si captano anche se non si sentono, abbiamo captato che la guerra era finita perché il cannone non ha sparato più e allora siamo timidamente, furtivamente ci siamo avventurati in strada, e abbiamo visto quello che era uno spettacolo di combattimento strada, non strada per strada ma insomma un combattimento ravvicinato, vicino a casa mia c’era il tribunale dove c’era la roccaforte dei, dei tedeschi che cercavano di opporsi fino all’ultimo alla conquista del del truppe jugoslave.
AP: E lì ha capito che la Seconda guerra mondiale era arrivata alla fine.
AD: Era arrivata alla fine appunto: da un silenzio irreale, da un fracasso, da un frastuono assordante del del cannone e di altre armi leggere che appunto improvvisamente, come come gran finale o, forse sono irriverente, accostare agli spari io del, dei fuochi d’artificio che finiscono con due gran botti, qui i botti sono finiti quando sono entrati i carri armati neozelandesi che hanno fatto fuoco sul tribunale e ponendo fine con la resa dei tedeschi, ponendo fine alla guerra, perché per me la guerra è finita in quel momento.
AP: Ora però vorrei portarla un po’ più in dietro. Lei ha, mi ha parlato di quando ascoltava la radio, notizie di bombardamenti su altre città italiane.
AD: Sì.
AP: Qual è stato il primo bombardamento di Trieste che lei ricorda.
AD: 10 giugno del ’44. Il primo bombardamento sulla città.
AP: Si ricorda dov’era?
AD: Sì, perfettamente anche più volte così menzionato con amici o. Era una giornata di sole, era il 10 giugno del ’44, una giornata che io ero rimasto a solo a casa per permettere, cioè perché mia mamma era andata ad accudire le quotidianità dell’acquisto dei generi alimentari, quei pochi che si trovavano perché non non c’era molta disponibilità. Poi c’erano le tessere che garantivano un qualche cosa che non riuscivano a garantire, allora ero rimasto solo perché i maschi della casa erano tutti in giro per il mondo: mio fratello in Grecia prigioniero dei tedeschi in Germania, eeeh mio cognato disperso in Africa, mio papà disperso da qualche parte in Italia, ero l’unico uomo di casa a dieci anni, no otto, sempre otto. Eeeeh [pause] è stato così come, anche quello, mi sono immaginato che stava cambiando rapidamente qualcosa, mi sono affacciato alla finestra, che avevo avuto istruzioni di come fare, cosa fare eccetera eccetera, ho avuto la sensazione che qualche guaio stesse incombendo sulla città, di fatti improvvisamente si sono sentiti i rumori dei motori molto forti mentre prima le altre volte passavano altissimi, si vedevano più scie che aerei. In quel giorno, affacciandomi sono riuscito a distinguere l’aereo, dunque erano molto bassi, appena ho, mi sono reso conto di cosa stesse per accadere, sono uscito dall’appartamento, stavo al quarto piano, sono sceso fino al secondo, al primo, a quel punto uno spostamento d’aria m’ha fatto, m’ha buttato su tutta la rampa di scale, non mi sono fatto niente però ho mi sono reso conto che era caduta la bomba molto vicina e di fatti così era avvenuto. Quello è stato l’impatto con la guerra guerreggiata.
AP: E cosa è accaduto dopo? Dopo l’episodio dove è volato.
AD: Eh naturalmente la famiglia si è ricomposta nelle varie emergenze, come arrivava a casa uno o l’altro.
AP: Qual è stata la reazione di sua madre quando è tornata a casa?
AD: Ah di sollievo di trovarmi, di trovarmi in vita praticamente. Perché la casa non era stata colpita però lo spostamento d’aria m’aveva fatto fare la fine di un moscerino davanti a una tempesta.
AP: E da questo momento in poi gli allarmi diventano una cosa.
AD: Una quotidianità, la seccatura era quella quando capitavano di notte verso le due, due e mezza, tre di notte che magari con la bora urlante per strada, e dover balzare dal letto e correre verso una sicurezza piuttosto precaria che offriva la cantina trasformata in ricovero.
AP: Provi a descrivermi con parole sue cosa accadeva o cosa si ricordava, cosa si ricorda lei adesso dal momento in cui lei si svegliava o veniva svegliato, al momento in cui tornava a casa dopo il cessato allarme. Cioè cosa cosa accadeva? Suonava l’allarme, poi insomma doveva svegliarsi.
AD: Correre verso un, un’effimera sicurezza che era rappresentata dal rifugio fatto nelle cantine, sotto la casa praticamente, non si aveva l’impatto con la bora, col freddo, perché essendo all’interno della casa avveniva più o meno abbastanza attutito questo impatto. Però in cantina c’era la fucina delle malattie per tutti i ragazzini, che cominciava uno ad avere una malattia e la passava a tutti gli altri e quando aveva finito l’ultimo cominciava la nuova. Eeeh da ragazzini non si sentiva molto il fatto che la guerra poteva rappresentare un pericolo mortale per noi, era un’interruzione seccante di una dormita che si auspicava durasse molto poco, di fatti tante volte, cioè visto che sono a contare questa cosa qua, sono durati abbastanza, abbastanza poco tempo per non avere conseguenze di altro tipo che non una seccatura, e la voglia di tornare sotto sotto delle lenzuola ormai fredde.
AP: Quando eravate giù in cantina.
AD: In cantina si faceva scambio di giornalini, soldatini, di figurine, questo a livello di ragazzini.
AP: Provi, provi a raccontarmi un po’ di quella atmosfera.
AD: Eravamo.
AP: Era, lei era con altre persone?
AD: Sì perché in casa c’erano tanti tanti giovani, tanti ragazzi, tanti, un po’ di molte età, cioè non che fossimo tanti, c’era il ragazzino di dieci, come quello di cinque, come quello di otto che rappresentavo io la categoria, era e si faceva, se era di giorno si andava, si cercava di uscire sfuggendo all’attenzione del capo fabbricato, che era una persona incaricata da dalle autorità non so di che tipo se comunali, se di partito, ma comunque era qualcuno che doveva stare attendo che nessuno uscisse dalla casa durante l’allarme, i ragazzini sono sempre quelli che riescano a sgattaiolare dappertutto e io mi trovavo tra quelli che andavano a giocare a guardia e ladri invece del giardin pubblico si andava a giocare per le strade attorno alla casa. Oppure traffico commercio di albi di vario tipo, non c’era Topolino quella volta ma c’era altri albi abbastanza adatti all’educazione dei dei giovani.
AP: Quindi scambiavate fumetti?
AD: Fumetti, figurine, figurine di guerra naturalmente, o figurine di di, con scenari di panorami eccetera così, ambientali, ecologicamente oggi qualificati.
AP: Appropriate. Si ricorda di giochi?
AD: Il gioco, il gioco dell’oca, il gioco del tranvai, il gioco di shanghai, eh quelle cose lì, le asticciole che.
AP: Lei mi ha parlato di soldatini prima.
AD: I soldatini.
AP: Ha dei ricordi particolari di quei soldatini?
AD: Eh io sì, perché erano la riproduzione su metallo eeeh di un qualche cosa che lontano, da qualche parte stava succedendo realmente, e allora ci si immaginava un po’ di essere partecipi anche noi attraverso quella figurina di piombo vicino a chi in quel momento stava, stava vivendo in prima persona.
AP: E quindi li scambiavate, ci giocavate.
AD: Sì, ci faceva anche la guerra tirandoci un qualche cosa tipo rappresentato, un, una gomma per cancellare le le tracce della matita come proiettile per, una volta colpito il soldatino questo cascava era morto.
AP: Eccellente. I gli adulti, i suoi genitori che cosa facevano in quegli stessi momenti? Cercavano.
AD: Chiacchieravano, chiacchieravano da qualche parte in questo angolo di di sicurezza, chiacchieravano chiacchieravano dei problemi del momento, della difficoltà di trovare generi alimentari, del delle poche ore che gli erogavano l’acqua o la luce, perché mancava tutto a determinate fasce, non c’era niente.
AP: Mi racconti, mi racconti di più di queste privazioni e mancanze.
AD: Le privazioni sono cominciate col primo bombardamento, le privazioni dovute dai danni che erano, che le bombe avevano provocato sulla città o in determinati punti strategici della città dove c’erano queste queste installazioni: il gasometro, uno dei degli obiettivi che indirettamente erano stati colpiti e perciò l’erogazione del gas era un pericolo oltre che non aver la potenza di erogare su tutta la città. Poi a seconda dei bombardamenti la mancanza di acqua, perché era stato preso l’acquedotto, perché era stato lesionato, la corrente elettrica perché perché la corrente elettrica, non perché avessero danneggiato, ma perché era un bene molto prezioso che andava centellinato e allora fino a una certa ora della sera non c’era corrente elettrica, cominciava per fortuna verso verso l’ora di cena ammesso che ci fosse qualcosa da cenare eeeh e allora erano di moda le lampade a petrolio con lo specchio per avere doppia, doppia luminosità eeeh erano tutte queste così eeeh.
AP: Lei mi ha parlato della radio a casa, la radio commentava questi avvenimenti, parlava del bombardamento su Trieste?
AD: Parlava, sì, ma come puro fatto di cronaca, non con commenti. I commenti erano sul numero di delle vittime magari ma non sulle cause o come andare ad analizzare o trovare motivi per cui, niente era un un elenco di cose di danni dove erano stati colpiti, case o obiettivi militari. Militari niente neanche uno quando [laughs] abbiamo constatato però c’erano obiettivi su cose che potevano andare, le scuole per esempio, in qualche parte sono, oppure sui sui sul trasporti, era stato distrutto tutta la parte della ACEGAT cioè quella società che garantiva i trasporti urbani che era stata praticamente distrutta perché era sul porto, il porto aveva i suoi danni ma, ma erano ininfluenti sul sul funzionamento della vita quotidiana della città. Aveva fatto danni aveva affondato navi, aveva fatto i guai per una categoria che non riguardava la popolazione, cioè le necessità quotidiane della popolazione, e da quel tipo di bombardamento non non veniva coinvolto ecco.
AP: Erano un po’ danni collaterali.
AD: Ecco sì, anche se forse più, che erano più danni più sostanzialmente più dannosi quei bombardamenti su quelle strutture che non sulla casa del normale cittadino, quello lì era un danno di carattere affettivo o morale.
AP: Lei ha detto danno di carattere affettivo, morale eccetera.
AD: Sì quando uno non trova più la sua casa.
AP: Lei ha avuto un’esperienza di questo genere o ha conosciuto qualcuno che.
AD: No per fortuna no, non ho avuto la conoscenza diretta.
AP: Però riusciva a ad immedesimarsi nel.
AD: Beh oddio sì, perché quando si andava in giro. La prima cosa dopo il bombardamento con mia madre siamo andati a cercare se la nonna, la mamma di mia mamma, era era riuscita indenne o meno se avesse avuto danni dal bombardamento. Constatato che era in buona salute, però siamo passati per la zona che tratti di strada erano scomparsi sotto il macello delle bombe.
AP: Qual è stata la sua impressione nel vedere la città?
AD: Eh di meraviglia perché era una presa di contatto tangibile, di vedere da vicino perché poi in una zona verso Sant’Andrea dove c’erano delle rotaie del tram che erano volate sopra gli alberi. Eh e quello era anche un altro modo per valutare la gravità e la serietà di un qualche cosa che se fino allora non era stato visto, da quel momento diventava una cosa reale.
AP: Quindi per la prima volta lei si è trovato coinvolto.
AD: Sono entrato in contatto con una realtà tragica.
AP: In quella circostanza, com’è stata la sensazione di essere un bersaglio, cioè la consapevolezza che qualcuno.
AD: Non reputavo, non mi reputavo un bersaglio. Avevo una strana sensazione ‘A me queste cose non possono succedere’
AP: Me ne parli.
AD: E tante volte mi domando ‘Ma perché io ho avuto questa sensazione’, forse questa sensazione mi ha aiutato a superare dei tempi, del dei fatti o delle cose che eeeh altrimenti non lo so quanto avrei potuto sopportare.
AP: Quindi lei ha avuto.
AD: Perché i disagi che le dicevo prima, la mancanza di servizi, la mancanza di vitto, la mancanza di sicurezza dell’incolumità, la mancanza di tutto, delle materie prime per una vita appena accettabile.
AP: Quindi lei si è trovato in questa situazione di grande disagio materiale e morale ma allo stesso tempo si sentiva quasi protetto.
AD: Perché proprio a me doveva succedere?
AP: A me non capiterà?
AD: Un discorso presuntuoso?
AP: Mah sì.
AD: Però non lo so, mi è venuto che a distanza di tempo pensando e ripensando su quegli episodi là eeeh non non so dare una spiegazione.
AP: Quindi a distanza di tempo le colpisce questo, le colpisce questo stacco.
AD: In occasioni come queste di questa intervista che la mente è andata su un qualche cosa che mi ero dimenticato, lei me l’ha fatta riportare alla memoria.
AP: Certo.
AD: E così anche tanti altri per esempio le ore trascorse a far la fila per andare a prendere l’acqua quando mancava l’acqua.
AP: Mi parli di questo: dove prendevate l’acqua?
AD: Da da un fondo, un deposito di ferro vecchio si chiamava appunto ferro, un deposito di ferri inutilizzabili pronti per andare in fonderia e lì c’era un tubo con un rubinetto in cui si poteva pazientemente uno alla volta a soddisfare una, una discreta, un discreto numero di utenti attingendo le acque in secchi, bottiglie, damigianette eccetera eccetera, ognuno andava via col suo carico di acqua perché non c’era acqua.
AP: Che poi lei portava a casa con.
AD: E si portava a casa, ognuno la sua razione di acqua per le necessità anche di bere o di preparare da mangiare
AP: Certo.
AD: Era un po’ meno consigliabile adoperarla per pulizie personali.
AP: Prima di cominciare l’intervista lei mi ha accennato brevemente all’incontro con un aviatore tedesco, vuole parlarmene?
AD: Mah è stato un incontro così, camminando per strada si aveva l’occasione di incontrare gruppi di soldati tedeschi, ma, faceva parte della Luftwaffe, con la loro divisa azzurrina eccetera. Eeeeh la cosa che che a posteriore mi stupisce ancora, come un, ormai un esercito allo sbando, o vicino allo sbando come era l’esercito tedesco che potesse avere fra i suoi componenti ancora tanto fanatismo. Quando si incontravano il saluto non era un ‘Ciao’ come si sarebbe potuto supporre tra commilitoni, ma con il, la la classica frase ‘Sieg Heil’ cioè un saluto al loro Führer. Eeeh per cui anche andando in questo negozio dove c’è stato l’incontro fra mia mamma e il tedesco e molto marginalmente io come, forse come attore perché io avrei dovuto a dieci anni forse diventare membro della Luftwaffe e quello aveva dato un po’ di così sgomento a mia madre perché immaginava che il soldato tedesco avesse potuto avere queste doti di creare un soldato da un ragazzino di dieci anni, otto, anzi.
AP: E lei come si è sentito? Spaventato, lusingato?
AD: Lusingato!
AP: Sì?
AD: Ho detto veh guarda questo qui che io guardavo da sotto in su, perché la mia statura di allora e l’altezza del del tedesco, acuivano, aumentavano la disparità di dimensioni.
AP: Capisco.
AD: Ecco eeeeh così, si vivevano sensazioni strane cose che oggi sono inimmaginabili.
AP: Lei m’ha parlato proprio di sensazioni strane che oggi sarebbero inimmaginabili, se dovesse spiegarmi qual è la cosa.
AD: La stranezza?
AP: Qual è, provi a a spiegarmi la la stranezza.
AD: Il fatto di andare la sera quando non c’era più, cioè quando c’era, non c’era luce, e la luce, il fatto dell’assenza della luce favorevole, favoriva il fatto di andare al Boschetto armati di una sega fatiscente per buttare giù un alberetto per andare, per portarlo a casa per avere la possibilità di scaldarsi perché altrimenti niente scalda, riscaldamento. Questo, ben sapendo che se i tedeschi stessi o la Guardia Nazionale Repubblicana che era l’alter ego fascista dei dei carabinieri eeh sparavano. E allora bisognava essere velocissimi buttarsi a terra per evitare le pallottole che a volte fischiavano vicino alle orecchie e poi si raggiungeva casa cercando di evitare le pattuglie che controllavano l’osservanza del coprifuoco perché a una certa ora della sera, verso le 10, 11, scattava il coprifuoco chi veniva pescato fuori veniva arrestato e poi qualche volta a seconda della ripetizione del caso c’era anche la deportazione in Germania o almeno in Risiera.
AP: Mmmm e come vedevate questo fatto del coprifuoco, cioè è una cosa che avevate voglia di sfidare, che.
AD: No la necessità di provare, trovare del legname per fare fuoco.
AP: Quindi semplicemente una cosa che di necessità, occorreva sfidare.
AD: Però abbiamo trovato io e mio fratello, abbiamo trovato modo di fare l’albero di Natale. L’abete costava uno sproposito rispetto allora, dei prezzi di allora, del costo delle, se non si trovava del pane non si aveva di sicuro da spendere per un abete su cui fare poi l’addobbo natalizio. Abbiamo fatto l’abete facendo cosa? Un manico di scopa, con un punteruolo fare i buchi, prendere i rametti dello scarto delle delle ramaglie dove c’erano questi, questi alberi si prendevano senza timore di rappresaglie, si faceva, si appuntiva il rametto e si infilava dentro, poi con i soliti addobbi che si tramandavano di di di anno in anno eeeh eeh poteva sembrare un albero vero. E quello era il nostro albero di Natale per il natale del ’43 e il natale del ’44.
AP: Lei mi ha parlato di Natale questo mi porta con una certa facilità a riti celebrazioni religiose eccetera: lei si ricorda qualcosa detta da figure religiose, parroci? Cioè la guerra entrava in un sermone, una predica, qualcosa cosa del genere?
AD: C’era nel mese di maggio e presso qualche chiesa, lo so perché questo, dovevo seguire la mamma in via Rossetti alla chiesa delle Grazie dove c’era un prete che sfidava gli occupanti di allora, gli occupatori di allora per, con discorsi di attualità di conforto, ma nello stesso tempo di conforto per le famiglie che avevano senz’altro dei componenti della famiglia in guerra o zone di guerra o addirittura già scomparsi. E allora mi trovavo ad andare il mese di maggio, era, avveniva questa, questa appuntamento con questo prete eeeh in maggio, in giugno la chiesa venne distrutta in pieno da una bomba. Eeeh per il resto sì, si faceva il giro delle chiese a vedere i presepi come più o meno avviene ancora oggi. Ehm altri ricordi di di legati al mondo della chiesa o della fede non ce n’ho.
AP: Non si ricorda se per esempio qualcuno dava una giustificazione o tentava di spiegarlo in un modo piuttosto che in un altro.
AD: No no, a meno che io me ne sia accorto no.
AP: Lei prima mi ha parlato del primo grande bombardamento, ne ricorda degli altri?
AD: Sì, allora per combinazione il primo era il 10 giugno del ’43, il secondo al 10 giugno, ehm 10 settembre dello scorso, dello stesso anno, e poi ben più robusti in febbraio del ’45, il 5 febbraio, il 10 febbraio sono, case che hanno, le fiamme le hanno divorate per più giorni in piazza, in piazza Carlo Alberto, via Ghirlandaio, sono zone che, urbane non parlo dei danni sul sul porto, parlo delle delle abitazioni coinvolte ecco questa era, i ricordi che ho queste quattro date che probabilmente saranno state anche altre. Per esempio qualche volta venivano di notte e bombardavano lo scalo ferroviario di Opicina, Villa Opicina, o, o il deposito di petroli verso Muggia, eeh ecco quelli erano dei momenti insomma che [pause] che componevano le varie diversificazioni nel corso della giornata, nel corso della guerra che avevano tutte queste queste escalation di intensità di bombardamento, di ampliamento di zone coinvolte nei bombardamenti ecco.
AP: Quindi la cosa è andata peggiorando nel corso.
AD: Peggiorando senz’altro.
AP: E quindi mi parlava di questo scenario di case devastate eccetera.
AD: Era sempre sì.
AP: Quindi anche ehm i suoni, gli odori erano diversi.
AD: Io non, non ho avuto nessuna conseguenza da, però c’era un, un misto di polvere, di cose che che sono in fase di, si forse per una carenza di pulizie per difficoltà di approvvigionamento dell’acqua era così, anche quello una componente del, dell’aria che si respirava allora.
AP: E nel frattempo lei continuava ad andare a scuola, nel frattempo continuava ad andare a scuola.
AD: Sì, si continuavo, andavo a scuola, il mio anno scolastico nel 1944 l’ultimo di guerra perché dopo [unclear] è stata è finita la guerra eeeh sulla pagella che da qualche parte devo avere ancora, son segnati mi pare diciotto giorni di scuola in un anno scolastico, però avevamo la fortuna di avere una maestra che sapeva fare il suo mestiere e che nella valutazione di fine anno ha saputo dare una descrizione della diligenza dello scolaro attraverso quello che conosceva. Era degli anni precedenti, perché si era una specie di famiglia allargata, e allora queste cose, non richiedevano una compassata interrogazione.
AP: Venivano capite.
AD: Sì.
AP: Tra i suoi compagni di classe.
AD: Sì.
AP: Lei ricorda vittime di bombardamenti?
AD: No.
AP: Qualcuno ad esempio che è arrivato ferito o che poi non si è.
AD: No no, nessuno per fortuna.
AP: Per fortuna no. C’è un’altra cosa che mi incuriosisce, lei ha parlato di ricoveri privati, quindi cantine.
AD: Sì.
AP: Ha avuto esperienza di ricoveri pubblici?
AD: Sì.
AP: Cosa cambiava?
AD: Sì, vicino a casa mia c’era una galleria scavata appositamente per servire da ricovero in caso di bombardamenti, un ricovero antiaereo come denominato allora. Eeeh: l’odore dell’umanità.
AP: Mi spieghi.
AD: Un’umanità un po’ sporca, fatta da odore di disinfettanti, di melissa [emphasis] che era l’odore imperante allora, era il toccasana per tanti guai piccoli guai, dove l’umido era una cosa normale, le pareti gocciolavano e lì bisognava trascorrere gran parte delle ore aspettando che suonasse il cessato allarme e si potesse tornare a casa. La decisione di andare nel rifugio anti aereo era derivato dal fatto che mio fratello in una peripezia durante la sua prigionia aveva portato a passare per Norimberga in Germania e lì lui [coughs] era rimasto scioccato di vedere l’entità di danni dei bombardamenti degli americani su quella città e allora una volta arrivato a Trieste ci aveva imposto come l’uomo che si sostituiva alle mie, alle mie facoltà di capofamiglia, di uomo del di famiglia, aveva consigliato più che imposto, aveva consigliato, ma fermamente di andare in questi ricoveri per, per paura che si verificasse, si ripetesse la stessa cosa a a Trieste, ecco allora come si. Per il resto anche lì si tentava, come gli altri ragazzi, di inventare qualcosa che non era più lo scambio di figurine o di soldatini eccetera ma erano giochi dati non so, fatti coi sassi con, o di saltare, atleticamente preparatori verso un qualche cosa.
AP: E gli adulti facevano più o meno la stessa cosa?
AD: Chiacchieravano, commentavano, che forse la guerra sta finendo che ancora un po’ ci si, ci si ritroverà a vivere una vita civile e non più quella vita da sinistrato che si stava vivendo.
AP: Si fumava all’interno del ricovero?
AD: Si fumava? Sì, c’era chi fumava ma in quei ricoveri là veniva consigliato più o meno delicatamente o educatamente di non fumare perché l’aria già viziata di per sé stessa che andare ad ammorbare con odori di tabacchi non certo di prima scelta e allora il fumo il fumo era pressoché bandito.
AP: Capisco. C’era qualcuno che commentava sugli equipaggi degli aerei?
AD: Su su che cosa?
AP: Sull’equipaggio degli aerei cioè.
AD: No, veniva calcolato un mezzo per venire a fare più danni possibili verso un occupatore, non ho mai sentito l’aviatore come un nemico della mia patria, cioè come a me come italiano. Quello che veniva a bombardare era per bombardare i tedeschi che ci occupavano.
AP: Quindi lei non ha avuto la sensazione di.
AD: Non ho visto il nemico proprio, sì una persona pericolosa, un attraverso un mezzo forse più pericoloso, ecco ma non.
AP: Non ha avuto questa sensazione di essere in un certo senso odiato?
AD: Non ho mai sentito il pilota, i piloti come nemici.
AP: E nemmeno le altre persone, cioè non c’era nessuno che lanciava improperi o cose di questo genere.
AD: No no no, non non li ho mai sentiti. Imprecavano il fatto di essere stati svegliati di notte per correre al rifugio ma non verso qualcuno, una protesta così in senso lato.
AP: Impersonale.
AD: Impersonale.
AP: Capisco. C’è una cosa che mi incuriosisce anche relativa al dopoguerra, e quando è finita la guerra negli anni successivi lei è ritornato su questi fatti, magari con persone che erano suoi coetanei all’epoca o ha preferito dimenticarsene?
AD: No, no son tutte cose che son rimaste con me.
AP: Fino a?
AD: Pochissime volte sono state riesumate non so, nel corso di qualche, qualche chiacchiera fatta fra amici eccetera, eeeh si può dire la prima volta che, in questo momento era che io sto tirando fuori delle cose che via via che sto parlando mi accorgo di, che nella mia memoria.
AP: Sono rimaste.
AD: C’è un angolino di queste cose qua, altrimenti è una cosa che ho lasciato perdere ma non perché deciso di lasciar perdere, perché è stato spontaneo, come quella sensazioni di prima ‘A me non può succedere’ non non mi interessa, il fatto della guerra che io quello che ho avuto ho subito, ho vissuto sulla mia pelle, forse mi ritengo fortunato di averle vissute, mi hanno forgiato per il proseguo della mia vita, nella mia carriera lavorativa eccetera eccetera.
AP: Quindi ritiene che in un certo senso la sua vita sia stata trasformata da quegli eventi?
AD: Condizionata, senz’altro.
AP: In che modo?
AD: Appunto di sapermi adattarmi alle difficoltà della vita, perché quelle che ho vissuto durante la guerra sono difficoltà, di altro tipo, però le difficoltà sono sempre alla fine, bisogna interpretarle nella maniera favorevole, non sfavorevole. Se io ho patito la fame allora eee se un giorno mi dice, sono costretto a saltare un pasto non faccio un dramma, anche due, è una cosa che ricordo di allora e che si può vivere si più sopravvivere senza luce, senza gas, senza acqua, senza la pace.
AP: Capisco. Direi che è stata una bellissima intervista
AD: Spero
AP: Ho raccolto un sacco di materiale particolarmente interessante, le viene in mente qualcosa d’altro? Vuole aggiungere qualcosa?
AD: Dovremmo stare qui ancora un bel po’ perché chissà da dove, da che parte, anche di qualche angolo della mia memoria può venire fuori qualcosa.
AP: C’è qualcosa di, magari ho toccato qualche argomento prima, vuole aggiungere, le è venuto in mente qualche altro dettaglio?
AD: Frequentavo una congregazione di preti dove mia mamma mi mandava per stare in pace un po’ lei perché ero abbastanza vivace, ne combinavo di tutti i colori, una specie di Pierino oggi si direbbe, e allora, beata l’ora che aveva trovato questo sfogo mi mandava anche abbastanza vicino a casa e c’era un prete di origine boema che sapeva fare coi ragazzi, mi interessava, era sempre pronto per fare, partecipare lui stesso ai nostri giochi, ai giochi di squadra di ragazzi, all’interno della congregazione c’era anche un teatrino dove, si giocava e basta. Con la fine della guerra il giorno stesso in cui sono cominciati i bombardamenti, questo prete, posso fare anche il nome eventualmente, padre Placek [?] essendo boemo è un cognome di quelli, non l’ho più visto, e non sono mai riuscito a sapere che fine avesse fatto, forse quelli che erano i frequentatori della della congregazione più vecchi di me forse loro eeeh possono sapere che fine abbia fatto questa questa persona, io non l’ho mai voluto approfondire, forse per non ricevere qualcosa di sgradevole nel nel scoprire qualche cosa che avesse determinato la sua scomparsa.
AP: Un destino funesto. Capisco.
AD: Ma vede ci sono cose che.
AP: Se, se, se. Bene, direi che se non le viene in mente nient’altro potremmo, potremmo chiudere qui.
AD: No, almeno mi sembra di no poi magari in seguito. Dovrò dovrò pentirmi di aver interrotto questa conversazione.
AP: Allora in questo momento spengo il registratore.
AD: Nell’ultimo anno di guerra, nei cieli di Trieste si era presentata o meglio era stata notata la presenza di un pilota, di un aereo, forse una cicogna. Questo pilota era un po’ mattacchione, buttava bombe dove vedeva luci e spesso faceva anche qualche danno più serio ma erano bombe di piccolo calibro che venivano sganciate, la fantasia popolare l’aveva definito, l’aveva chiamato Pippo, a dire Pippo nel 1944, qualsiasi persona della mia età sa a che cosa si può riferire.

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Alessandro Pesaro, “Interview with Alberto Dini,” IBCC Digital Archive, accessed April 25, 2024, https://ibccdigitalarchive.lincoln.ac.uk/omeka/collections/document/292.

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This Item dcterms:relation Item: Toy soldiers