Interview with Giuseppe Pirovano

Title

Interview with Giuseppe Pirovano

Description

Giuseppe Pirovano remembers wartime memories as schoolboy at Affori, a Milan neighbourhood. Describes daily life in fascist youth organisations, with regimented schooling and political rallies. Mentions childrens plays and pastimes, such as assembling a kick scooter from scrap and recalls fascist militiamen intimidating and jailing dissenters. Recalls conscription dodgers and factory strikes. Gives an account of the 24 October 1942 bombing, which caused limited damage and describes the much more intense one of 10 September 1944. Gives a graphic account of its aftermath, mentioning the death of his father and widespread damage. Describes different shelter types stressing their inadequacy, mentions his experience as evacuee in the Brescia countryside while his father was employed by a manufacturing firm. Recalls Pippo strafing. Gives an account of his experience as trade union activist, describing his post-war career as mechanical engineer. Mentions his involvement in the memorialisation of the bombing war, reflects on the morality of bombing, and stresses how he feels grateful for the sacrifice of those who died.

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APirovanoG171113
PPirovanoG1701

Transcription

ZG: Prova? Funziona? Sì. Allora, l’intervista è condotta per l’International Bomber Command Centre. L’intervistatore è Zeno Gaiaschi, l’intervistato è Giuseppe Pirovano. Nella stanza è presente, in qualità dell’assistente di Zeno, Simone Biffi dell’Associazione Lapsus. L’intervista ha luogo in Via Gian Rinaldo Carli al numero 34 a Milano il giorno 12 Novembre 2017. Ok, possiamo iniziare. Allora inizio con delle domande di riscaldamento. Qual è il ricordo più lontano che ha, più remoto di tutti?
GP: Diciamo, ma qualche ricordo già prima della guerra. Quindi io sono del ’31 per cui ho dei ricordi verso gli anni ’39-’40. Quegli anni lì ricordo benissimo. L’aspetto che mi è rimasto in testa è la situazione qui di Affori ma sicuramente rispecchia la situazione generale dove il Fascismo teneva in iscacco se possiamo dire, la popolazione. Esempio. Allora c’eran solo le osterie e mio padre andava all’osteria qualche volta, non sempre. Era anche lui uno che gli piaceva bere il solito bicchiere di vino coi compagni, con gli amici, e ogni tanto mi portava, anzi ero io che gli correvo dietro, avevo otto, nove anni quindi, dieci anni. E mi ricordo la situazione, mi è rimasto impresso alcune cose. Per esempio, mi ricordo che sulle pareti dell’osteria dove c’era il, dove si batteva, dove batteva la spalla della sedia c’eran tutte le parole d’ordine: ‘Qui non si parla di politica’, ‘Viva il Duce’ e tutte queste parole d’ordine che potete immaginare quali erano. Ma questo è il meno. Ricordo benissimo che c’erano due, due esseri, due signori che giravano il rione vestiti proprio con la tuta da fascista, camicia nera, pantaloni, in bicicletta, sempre loro due, uno si chiamava Marinverni, l’altro Cavallini, e con la pistola sempre addosso. Facevano il giro delle osterie e ogni, alzavano la voce, la gente stava in silenzio, loro facevano il cosidetto bauscia, disevano a Milan, e quindi in alcuni casi hanno provato anche a sparare in alto, tanto per intimorire la gente. Questi erano proprio i manovali, me li ricordo bene, mi sono rimasti in mente anche i nomi. Poi naturalmente c’erano quelli vestiti bene, quelli che erano alla sede del Fascio qui ad Affori e che loro si facevano solo vedere nei luoghi delle parate quando c’era qualche manifestazione nel rione. Ecco questo, sono i ricordi più lontani, di prima della guerra.
ZG: Ma lei si ricorda perché questa camicie nere intimorivano? Quali erano le motivazioni? C’erano delle cause scatenanti?
GP: Non saprei dire la motivazione. Sicuramente evitavano, volevano evitare, diciamo, che qualcuno si comportasse da antifascista, questo per loro era una cosa che non poteva esistere, per cui controllavano, vedevano se c’era qualcuno di questo tipo. Naturalmente c’erano, ma però non posso dire che alloro lo sapevo, li avevo conosciuti nel, nel dopoguerra chiaramente, negli anni ’45-’46, c’erano gli antifascisti e c’erano ma non si muovevano, non si. Qualcuno di questi venivano anche portati in prigione quando c’era le visite dei gerarchi fascisti, di Mussolini in particolare qualche volta che era arrivato a Milano, però loro non li conoscevo, ma penso che lo scopo principale era quello di tenere sotto controllo la situazione insomma.
ZG: Senta, che lavoro facevano i suoi genitori?
GP: Mio padre era un operaio, lavorava alla Ceretti e Tanfani, una ditta molto importante. Era una ditta ausiliaria si diceva allora, cioè ausiliaria nel senso che producevano cose che servivano per la guerra e quindi. Non le armi ma le strutture sono le gru, gli impianti funiviari, gli impianti che potevano servire per l’esercito, quindi lavorava in uno di quei. Mia madre era casalinga. Eravamo tre fratelli, due fratelli e una sorella.
ZG: Si ricorda un po’ della vita prima della guerra, in famiglia, a casa?
GP: Mah, prima della guerra ricordo che mio padre lavorava dieci ore al giorno e comunque, riusciva comunque a mantenere la famiglia ecco. Mia madre non ha mai lavorato da sposata e non saprei dire precisamente perché. L’età era poca e quindi eravamo, non eravamo in grado di capire per bene le cose. Però posso dire che riuscivamo a vivere, naturalmente con sacrifici perché il mangiare era quello che era, non è che eravamo. E ricordo in particolare che i giorni di Natale, mentre alcuni bambini avevano la fortuna di avere una famiglia un po’ benestante, meglio di noi, noi non avevamo niente insomma, c’erano i soliti pacchetto di mandarino con la noce con quelle poche cose di frutta. Ecco, quello che ricordo è un po’ questo. Facevamo fatica, vivevamo con fatica, ma vivevamo.
ZG: Lei e i suoi fratelli giocavate?
GP: Sì, sì, giocavamo, giocavamo. Mi ricordo che io ero il maggiore facevo, costruivo i monopattini, andavo da, c’era uno stracciaio vicino a casa dove abitavamo, noi abitavamo qui in, qui vicino insomma, un centinaio di metri. E andavo a comperare, ce li regalava praticamente, soldi noi non ne avevamo, le ruote a sfere che raccogliendo i rottami che questo signore c’era dentro anche queste cose qui, noi lo sapevamo e andavamo là e facevo il carrello, il carrellotto con il legno, la, col manubrio, bulloni per fare da perno, la ruota a sfera più grossa che riuscivamo a trovare e facevamo il carrellotto che ci spingevamo in giro oppure il monopattino, con due ruote a scorta. Per dire uno dei giochi, poi giochevamo tante altre cose siam bambini, giocavamo, giocavamo, questo.
ZG: Ehm, lei si ricorda qualche altro gioco in particolare?
GP: Giocavamo, ci allora, ci mettevamo carponi uno dietro l’altro e saltavamo sulla schiena. Chi saltava più, due persone, tre persone. Giocavamo alla, noi lo chiamavamo il Pirlo, pezzo di legno così che mettevamo per terra, picchiavamo sulla punta e il legno andava lontano, quindi chi andava più lontano vinceva. E così insomma questi più o meno erano i giochi che facevamo.
ZG: Senta, si ricorda di quando è scoppiata la guerra?
GP: Sì. Scoppiata la guerra, mi ricordo vagamente del discorso di Mussolini, stranamente. Però stranamente era, tutte le radio parlavano di questo. E mi ricordo vagamente, vagamente col senno di poi, l’ho sentito attraverso i tele, i giornali eccetera ma allora ricordo vagamente per dire la verità. Non è che potessi capire il significato, perché insomma io avevo, nel ’40, 10 giugno del ’40 avevo nove anni, capite che un ragazzo non, però ricordo ma poi. Diciamo quello che posso dire è come ho vissuto io la guerra, ecco questo.
ZG: Ecco sì, voglio fare giusto una domanda prima che era, gli adulti gli parlarono della guerra? I suoi genitori o famigliari a lei vicini, amici dei genitori?
GP: Beh, mio padre un po’, mio padre, mio padre parlava un po’ qualche volta però non si sbottonava. Mio padre non era un politico ma era un antifascista, questo sicuramente, questo, lo posso testimoniare. Politico no perché poi anche lui era un operaio nel senso che non aveva, scuole, sì, fatto le elementari ma non aveva cultura politica. Ma era un antifascista e ogni tanto qualche cosa me lo [sic] diceva. Era un tipo che ogni tanto mi ricordo che prendeva in giro qualche fascista della prima ora, con dell’ironia non con della, diciamo discussioni politiche, si guardava bene perché non avrebbe potuto. Però mi ricordo che c’era uno che aveva fatto la Marcia su Roma, abitava vicino a noi e mai poi era un uomo anziano, non è che fosse, non era un uomo cattivo ma era un fascista. Mi ricordo, eravamo forse nel ’41 quando, quando venivamo, eravamo in Africa ed eravamo sconfitti e allora mi ricordo precisamente, una volta visto fuori in strada e gli diceva: ‘Ohè, Scaiett’, si chiamava Scaietti, ‘Scaiett, andem ben, eh!’. Faceva così, il segno della vanga. Vangava per dire che andavamo indietro. Lo prendeva in giro, per dire. Era comunque un tipo abbastanza, le conosceva le cose, e qualche volta si azzardava anche con gli amici a parlare, ma molto, molto poco, non è che era un antifascista combattente, no, non lo era. E naturalmente poi ho saputo che in fabbrica c’era l’organizzazione clandestina ma questo l’ho saputo dopo e quindi.
ZG: Dopo torneremo anche su questo. Quindi lei non si ricorda nulla in particolare proprio di come suo padre invece parlava a lei della guerra e del fascismo?
GP: No, ma, no, soltanto qualche volta, quello che succedeva, lo diceva in casa ecco. Ma no, devo dire di no. Per dire la verità.
ZG: Eh per caso avevate parenti al fronte?
GP: Al fronte c’erano i miei cugini, i miei cugini sì. Figli della sorella di mio padre e sono, due son tornati tutti e due, sì e altri cugini, altri cugini non me ne ricordo, che erano al fronte.
ZG: Ok. Senta invece, si ricorda dei bombardamenti?
GP: Eh beh certo. Eh lì vorrei parlare un po’. Allora partiamo dal primo bombardamento avvenuto a Milano il 24 Ottobre del ’42, primo bombardamento a Milano. Premetto che a Milano era già stato fatto un bombardamento nel ’40 appena scoppiata la guerra, me lo ricordo bene perché mio padre con la bicicletta, noi abitavamo ad Affori, abitiamo tutt’ora ad Affori, siamo andati a vedere i bombardamenti, per dire incoscienti e incapaci di giudicare, penso che era normale. Allora con la bicicletta, io con la mia bicicletta, mio fratello con la sua biciclettina siamo andati in Via Thaon di Revel, sapete dov’è? Piazzale Maciachini, avanti, lì c’è la Chiesa della Fontana. Il bombardamento è avvenuto con qualche bomba incendiaria che ha toccato la chiesa e la casa di fronte. Siamo andati subito quando l’abbiamo saputo, mio padre c’ha portato, e abbiamo visto di cosa si trattava. Proprio due spezzoni erano apparecchi, erano i francesi, perché noi abbiamo dichiarato guerra ai francesi e quindi quelli si sono vendicati subito ma ridicolmente insomma. Era un bombardamento ridicolo eh. Incendiarie hanno rotto una soffitta, un pezzo di, vabbè, comunque, questo è [unclear], però non è più stato fatto nessun bombardamento. Il primo a Milano è avvenuto il 24 Ottobre ’42. Io ero in quel momento nel cortile di casa mia, in una stanzetta del cortile con cinque, sei amici ragazzi, sentiamo sto casino, sto bombard, sto rumore, sparare e il rumore degli aerei. Usciamo e siamo rimasti lì, era le cinque della sera, quindi iniziava il tramonto. Si vedevano tutti i traccianti della antiaerea, qui nella, c’era l’antiaerea piazzata, là nella Cava Lucchini, vicino proprio a noi, le mitragliatrici e si vedevano gli apparecchi che passavano, che urlavano, erano gli aerei, apparecchi inglesi naturalmente perché i primi bombardamenti sono stati fatti dagli inglesi ’42-’43. Gli americani non c’erano ancora e quindi, vedevamo chiaramente mollare le bombe, magari appena dopo perché appena dopo magari alla Bovisa sugli scali ferroviari eccetera nei dintorni. Noi ad Affori non siamo stati colpiti. E quindi questo è stato il primo bombardamento che ho visto coi miei occhi gli apparecchi che mollavano le bombe. Ricordo il rumore degli apparecchi che poi dopo li ho risentiti in qualche documentario ma li ricordo bene. Allora il giorno seguente, uno o due giorni, mio padre ha caricato la famiglia, ci ha portati fuori Milano, sfollati diciamo, eravamo i primi sfollati, perché poi Milano ha avuto molti sfollati proprio a causa dei bombardamenti. Allora il discorso è questo, noi con la famiglia eravamo sfollati in provincia di Brescia, in campagna, e lui lavorava tutti i giorni da solo a casa, ecco. Veniva tutte le domeniche, quasi tutti i sabati e la domenica a trovarci, prendeva il treno, veniva a trovarci. Però era il ’42, la guerra è finita nel ’45, e io saltuariamente venivo a casa con lui, ’43, ’44 quindi in permanenza non ero a Milano però venivo a casa con lui ogni tanto. E quando ero a casa non sono riuscito a dormire una notte perché c’eran sempre i bombardamenti, c’eran sempre gli allarmi. Su casa nostra non abbiamo avuto i bombardamenti ma le case circostanti, i rioni, Milano insomma è stata distrutta, lo sapete meglio di me. Quindi io ho vissuto nei rifugi qualche, alla notte ed era un dramma veramente: il terrore, la paura. Chi andava nei rifugi era, in genere le donne, ma tutti insomma, mio padre nei rifugi non c’è mai andato perché lui diceva: ‘Mi la fin del rat la fu no!’, la fine del topo non la voglio fare. E allora, quando io ero qui qualche volta mi è capitato di andare nei rifugi perché se era di giorno, o comunque un orario che mio padre era a lavorare e io ero solo, e quindi andavo nei rifugi non potevo, ma quando c’era mio padre lui mi prendeva come al primo allarme mi metteva sulla canna della bicicletta e correvamo fuori perché qui ad Affori adesso è costruito molto ma allora era campagna perché era l’ultimo rione della città e quindi avevamo molta campagna e mi portava nei fossi, nella campagna per evitare i bombardamenti. Ma diciamo che ho vissuto i bombardamenti nei rifugi quando venivano qui. E mio padre, dicevo, veniva ogni tanto, ogni tanto, ogni settimana, al massimo ogni quindici giorni veniva a trovarci. Il giorno del 10 settembre ’44 era un giorno che tornava a Milano della visita che aveva fatto a noi e quando tornava a Milano il treno arrivava generalmente dopo le dieci di sera, c’era il coprifuoco alle dieci di sera, quindi cosa succedeva? Lui dormiva alla stazione centrale, al mattino alle sei prendeva la bicicletta e andava a Bovisa a lavorare, Bovisa è qui vicino. La sera del 10 settembre il treno è, è arrivato in orario, ha fatto in tempo a prendere la bicicletta e andare a casa. È andato a casa, diciamo è salito in casa per disfare la valigia, le bombe cadevano. Nel cortile distrutta la casa. Cosa succedeva? Le bombe cadevano e quindi lui è sceso perché non poteva stare lì perché andavano giù, sentiva le case che andavano giù e anche la nostra dove abitavamo cominciava a crollare. Allora molta gente nel, che scendeva nel cortile perché era un gruppo di case, allora molta gente andava nel rifugio ma il rifugio era la solita cantina che costruivano dove si metteva il vino, si metteva, quindi non era un rifugio, era una cantina. E quindi mio padre faceva la parte delle persone che scappavano, oltretutto non era in grado di contenere tutte le persone, molta gente scappava. Mio padre è scappato con un gruppo di dieci persone. Fatto venti metri, è arrivato a un bivio, scappavano, cercavano di andare in un rifugio più sicuro, loro pensavano. Ha fatto venti metri, erano un gruppo di dodici persone, tredici persone, una bomba è caduta nel centro. Quindi strage completa. Mio padre è rimasto sotto i bombardamenti in quell’occasione lì. E, scusate,
ZG: Se vuole interrompiamo.
GP: [starts crying] cosa succede, c’erano i miei amici, un ragazzo col collo tagliato, mio padre combinazione non aveva niente ma lo spostamento d’aria gli ha spaccato il cuore. E però una parte di persone si è fermato nell’androne, nell’androne della casa si sono salvati, in cantina si sono salvati e quelli che sono usciti sono morti tutti. Tenete conto che la mia casa, la casa dove abitavo, era ai, dietro la chiesa, in linea d’aria trenta, quaranta metri, perché proprio era sull’angolo del giardino del parroco. A sinistra c’era la scuola elementare dove io ho frequentato la prima, la seconda e la terza. Alla mia destra, quella via, c’era l’asilo infantile con cinque suore. Ebbene, hanno distrutto l’asilo, distrutto la scuola, distrutta metà la casa dove abitavo. Hanno danneggiato la chiesa, per dire quel gruppo di queste case. Poi più avanti hanno distrutto dei caseggiati completi, la Cur di Restei, la chiamavamo e tante altre cose lì in giro ma poi anche tanti altri. Quindi questo è il 10 settembre ’44. Mio padre è morto e noi siamo rimasti là in campagna dove mia madre è stata assunta, in combinazione c’era una ditta di tabacchi, raccoglievano il tabacco, lavoravano il tabacco, mia madre è stata assunta lì e siamo riusciti per tirare avanti con lo stipendio di mia madre. Quindi siamo stati lì fin dopo, fino il ’45 e mi ricordo l’ultimo episodio che voglio dire. Il 25 aprile del ’45, ero ancora lì naturalmente, e io seguivo un po’ gli ultimi avvenimenti, ormai avevo quattordici anni capivo un po’ di più insomma. E son corso sul, sono andato sulla strada principale Asola-Brescia perché in quei momenti lì i tedeschi cominciavano a scappare. Ora sono corso là con i miei amici grandi, giovanotti che ricordo si preparavano già qualche giorno prima, armeggiare, trovavano qualche arma, qualche cosa del genere. Sono andato lì per trovarli, insomma io volevo esserci. Sono arrivato là, non ho trovato nessuno in quel momento lì al mattino presto. Però mi sono trovato di fronte un gruppo di tedeschi, quindici, circa quindici tedeschi, potevano essere quattordici o sedici, ma era più o meno un gruppo così, un gruppo di tedeschi in bicicletta armati di tutto punto, bombe a mano e mitra, in bicicletta con sacche pesanti. E ormai ero lì, non sapevo più cosa fare e ho detto: ‘Ma sono un ragazzo, forse non mi dicono niente’. Invece il capo lì: ‘Komma her, komma her’, mi ha messo in mezzo per attraversare il paese. L’intenzione era quella naturalmente di avere l’ostaggio in centro in modo che, avevano paura dei partigiani per cui se c’era qualcuno e attraversiam, per attarversare il paese. Naturalmente io il paese lo conoscevo come le mie tasche, e poi avevo quattordici anni quindi, e intanto che andavamo non so se per incoscienza o non sentivo paura, non è che avessi paura, stavo pensando come facevo a scappare. E infatti prima di uscire dal paese conoscevo bene come fare avevo visto, avevo pensato e quindi con un salto sono uscito dai ranghi. Immaginatevi questa gente qui, stanca, affamata, carica come era, non mi ha neanche visto insomma. Sono scappato e quelli se ne sono andati. Sono stati fermati dai partigiani in paese dopo. Io sono tornato là e ho trovato finalmente i ragazzi che si sono messi là, mi hanno messo assieme a uno con la mitragliatrice, io dovevo metterci su le cartuccie, le scatole e comunque eravamo lì a fermare i tedeschi. Diciamo che la giornata è passata così. Lì fermavano i tedeschi, li mettevano nella scuola poi dopo sarebbero stati mandati non lo so e, eh glielo ripeto ero là. E se venivano le macchine era più pericoloso dicevano se veniva qualche macchina. Allora c’era un incrocio rispetto alla provinciale, veniva una macchina dalla provincia di, era da Castel Goffredo provincia di Mantova, e io ero su quella strada lì dietro l’angolo con questo qui. Sento la macchina, sentiamo la macchina, guardo e tra le fronde della siepe avanti centocinquanta metri vedo un elmetto che non è tedesco quello non è un tedesco, non sono tedeschi allora metto la mano sulla mitragliatrice prima che quello mi, [unclear] tedesco, e arriva la camionetta degli americani. Era il primo americano che vedevo e così abbiamo visto sta camionetta, è arrivato lì, ha fatto quattro chiacchiere, sai quei classici, quattro persone, due di dietro sdraiati con le, che poi s’è visto nei giornali che c’hanno fatto vedere ma li era, mi ricordo classico, quattro parole che noi non capivamo niente e con la cicca americana e se ne sono andati subito. Ecco, questa è la mia giornata del 25 aprile ‘45. E poi naturalmente c’è tutta una storia del dopoguerra molto importante ma che non c’entra con.
ZG: Senta, io le volevo fare qualche domanda per tornare un attimo su qualche passaggio. La prima era, nel ’42 lei ha detto che c’è stato il bombardamento, quello degli inglesi.
GP: Sì.
ZG: Il primo che ha assistito. Ha detto che aveva sentito le bombe ma non ha parlato della sirena antiaerea. In quell’occasione lì, era suonato o non era suonato?
GP: No, assolutamente no. Le ripeto, noi siamo usciti perché abbiamo sentito rumore ma il, l’allarme aereo non era suonato. Nel modo più assoluto. Poi, voglio dire, l’allarme aereo raramente suonava. Non c’era, non c’era organizzazione. Gli unici un po’ organizzati erano la cosidetta UNPA, erano dei civili incaricati in ogni caseggiato per essere, diciamo era come un, come si dice, quelli che abbiamo adesso, la protezione civile ecco, faceva un po’ di queste cose qui. Allora c’era quello del caseggiato più anziano, più bravo, faceva questo lavoro qui. Tutta roba diciamo, organizzata e no, insomma. Allora se c’era qualcuno di buona volontà, se sentiva l’aereo, suonava, perché c’era la tromba, la sirena che faceva a mano, faceva andare a mano. Ma raramente suonava prima dei bombardamenti. Sì, il primo bombardamento assolutamente non suonava. Poi in seguito, mi dicevano i miei amici, perché ci sono quelli che erano qui tutti i giorni, qualche volta suonava ma di rado. In genere arrivavano gli apparecchi e bombardavano. Mio padre, quella volta lì lo stesso, arrivato gli apparecchi, bombardavano e son scappati, ma. Allarme niente, non c’era organizzazione!
ZG: Il rifugio in cui lei scappava di solito, era la cantina di casa sua?
GP: Sì, sono andato anche in altri rifugi. Per esempio, c’era un rifugio fatto, sempre qui, in un posto dove c’era un prato fra le case, era un rifugio che avevano fatto, scavato due metri, se dico due metri potevano essere due e cinquanta, forse anche tre, non lo so, no si passava appena appena, due metri, coperto da tavole, dico tavole. Sopra le tavole la terra che avevano scavato l’han messa su sopra, quindi rifugio per modo di dire. Andava bene se c’era qualche scheggia in giro perché bombardavano ma era una cosa inutile, assolutamente, non era rifugio. E per il resto erano cantine. Non c’erano rifugi, in zona parlo eh, perché poi in altri posti avevano fatto anche dei rifugi. Ma a Affori assolutamente non ce n’erano.
ZG: Come passava il tempo nel rifugio, se lo ricorda?
GP: Seduti, c’erano le donnine che pregavano, c’erano i bambini che piangevano, e io mi ricordo che, ero pieno di paura e quando ero in rifugio, ero solo naturalmente, mio padre non c’era. Ero, tremavo e pieno di paura, poi sa in quell’ambiente lì, donne che gridano, che urlano, i bambini che urlano, e così, è una tragedia insomma. Non era una cosa molto bella.
ZG: Senta, oltre alle preghiere, ogni tanto magari avevate altri metodi per passare il tempo, tipo qualcuno cantava magari o?
GP: No, no, no, io non ricordo. Beh la preghiera dico perché qualcuna che c’era, che faceva la preghiera, non è che, che fosse collettivo il fatto. Qualcuna si metteva a pregare, le donne anziane, me lo ricordo ma, no, anche perché nel rifugio non è che ci stavamo tanto. Cioè i bombardamenti potevano durare mezz’ora, l’allarme diciamo poteva durare mezz’ora, al massimo un’ora ma generalmente finiva molto prima insomma ecco. Che gli apparecchi non potevano star su le ore, bombardavano e se ne andavano. Magari si ripeteva ma non molto a lungo. Nei rifugi stavamo poco tempo, mezz’ora.
ZG: E senta invece dov’è che è sfollato, quando suo padre l’ha portato via?
GP: Sul confine fra Brescia e Mantova, in campagna, se posso [unclear] anche il paese Acquafredda si chiama, Acquafredda, c’è ancora eh!
ZG: E come mai vi ha portato là esattamente?
GP: Perché c’erano i genitori di mia madre, con un fratello di mia madre. E quindi abitavamo tutti assieme nella casa dove abitavano questi. Il, loro non erano contadini, mio nonno era una falegname e mio zio faceva l’operatore delle macchine, le trebbiatrici, le macchine che usavano per la terra, le aggiustava, le, insomma faceva quel lavoro lì.
ZG: E da quelle parti bombardamenti non ce ne sono mai stati?
GP: No, assolutamente, in campagna no, abbiamo vissuto bene.
ZG: Perché ogni tanto tornava a Milano con suo padre?
GP: Eh, perché ogni tanto, io, papà, vengo anche io a Milano oppure era lui ma non è che son tornato, forse due o tre volte a, tre volte a Milano. Però, ragazzi! Erano tragedie tutte le volte. Era una tragedia perché era sempre in giro. Mi son trovato in quel rifugio lì che le dicevo, mi son trovato scalzo. Quindi era, ’43 forse, o primavera ’44, insomma era terrore, scappavamo, eran momenti brutti insomma, non, una cosa che, da non augurarsi guardi.
ZG: Senta invece, un’altra cosa che volevo chiedere era, con la scuola, lei quando ha sfollato per la prima volta, stava già frequentando la scuola media?
GP: No, allora, io ho frequentato la scuola che hanno abbattuto lì quando hanno bombardato mio padre, è morto mio padre, ho fatto prima, seconda e terza, la quarta sono andato a farla nelle scuole nuove, sempre qui ad Affori. Allora la quarta, io sono stato bocciato, sono stato bocciato perché non ho risposto alle domande di religione. La mia maestra, maestra Giacchero, era una fascista di quelle terribili, clerico-fascista, e io non ho risposto a domande di religione perché avevo fatto, avevo tranciato i miei rapporti con la chiesa quando mi hanno fatto fare il chierichetto. Mi hanno fatto fare il chierichetto, parliamo forse nove, dieci anni, allora c’erano chierichetti così piccoli e mi ricordo che a un battesimo un signore ha tirato fuori i soldi, ha dato i soldi al prete, ha detto: ‘Questi qui sono i suoi, questi qui sono per il batte, e questi qui per i chierichetti’. Il prete ha messo in tasca i soldi e non ha dato niente, né a me né a nessun altro, ha tenuto tutti i soldi dei chierichetti. Da quel giorno lì, per me, sono andato a casa ho detto: ‘Mamma, io in chiesa non ci vado più’, ‘Perché?’ ‘Perché mi ha rubato i soldi’ mi ricordo. [unclear] ‘Ma no, ma’, basta, e io ho chiuso. Quindi per me la chiesa non esiste, non esiste da quel giorno là insomma. Poi tutto va bene, tutto [unclear], per me non è un problema, è un problema [unclear], ma. Quindi sono stato bocciato in quarta, ho rifatto la quarta qui e [mobile phone rings] scusatemi.
ZG: Interrompo, non si preoccupi.
PG: Sì?
ZG: Allora, dopo la pausa riprendiamo l’intervista.
PG: Ecco, ehm, quindi ho rifatto la quarta. Il mio maestro era un centurione, un ex-centurione della milizia. Allora e io ero il caposquadra per dire che sono stato bocciato non perché ero un asino, anche se non ero una gran scienza per dire ma io sapevo le mie cose.Sono bocciato proprio perché non ho risposto alle domande di religione e il mio maestro dopo qualche giorno mi ha fatto caposquadra. Era un centurione della milizia e lui voleva avere una squadra organizzatissima. Aveva fatto sette persone, sette ragazzi capisquadra, io ero caposquadra ma ne aveva fatte altri sei che ognuno aveva dato un compito ma soprattutto in palestra ci portava. Eravamo organizzati in un modo eccellente. Io avevo la mia squadra che comandavo a bacchetta: ‘Avanti marsch, destra, sinist, obliqua sinist’. Ero bravo, era il maestro che mi aveva insegnato. E quell’anno lì, doveva essere il ’41 o il ’42, ’41 sicuro o fine ’40, poi facciamo i conti e magari, sì ’42, ’41, ’42 sono andato via, e abbiamo fatto un raduno, hanno fatto un raduno all’arena di Milano di quattrocento classi elementari, la quarta e la quinta, per fare gli esercizi ginnici. Far vedere che erano i giovani, i Balilla che, come eran bravi i Balilla eccetera. E io ho portato la mia classe, siamo stati bravi, eravamo sicuramente fra i primi perché i nostri ci tenevano. Poi per c’han fatto uscire dall’arena. Uscendo dall’arena c’erano dei tavoloni, son stati cinque o sei tavoloni, non lo so perché eravamo in tanti. Ogni tavolone c’era un gerarca dietro lì, un fascistone e io ero il caposquadra, dovevo andare a rispondere, a rispondere alle domande che queste persone mi facevano. Sono arrivato là con la mia squadra: ’Avanti marsch, destra, sinistra, tac!’ ‘Senti’, mi dice, ‘chi ha dichiarato guerra? L’Italia all’Inghilterra o l’Inghilterra alla Germania?’. Sono rimasto un po’. Non lo sapevo, non lo sapevo anche se, che magari era stato detto però non quel momento, non lo sapevo. Però pensavo ragazzi la guerra è una cosa brutta, non siamo noi italiani che la vogliamo, nella mia mente, e ho detto, no è stata l’Inghilterra. ‘Bravo asino! Vai via con la tua classe!’. Questo per dire [laughs] come eravamo in quei tempi là. E poi naturalmente io ho passato la quarta, sono andato in quinta, nel ’42 già avevo perso un anno, nel ’42 a settembre, a ottobre siamo scappati. Perciò ho ripreso la quinta là in campagna, ho fatto la quinta là. Dopodiché là non c’erano più le scuole. Per fare la, per andare a scuola bisognava fare tredici chilometri fino a, un paese importante, paese grosso, ma allora come facevo? In casa c’era una sola bicicletta, a parte il fatto che fare tredici chilometri in bicicletta, col Pippo che ogni tanto sparava addirittura sui cavalli e carretti che c’erano sulla strada, hai mai sentito, avete sentito parlare del Pippo? Ma poi c’era una bicicletta, l’usava mio zio per andare a lavorare. Quindi io, finita la quarta, la quinta elementare, non ho più fatto la scuola. Anzi, devo dire che, allora per andare alle scuole medie bisognava fare, come si, gli esami di stato. E sono riuscito a fare gli esami di stato con la mia maestra - che voleva che li facessi - e con altre sei ragazze, la figlia del sindaco, del podestà, allora del podestà, la figlia del suo secondo era il caseario, aveva il caseificio, la figlia del fabbro e altre tre ragazze dei tre più grossi fittavoli del paese. Allora io ero quello che aveva, che mi vestivo con i pantaloni neri di tela stracciati con le pezze sul sedere e loro erano le figlie, erano le sei ragazze dei ricchi del paese. Allora sono riuscito ad andare, a fare gli esami di stato in quel paese e, non mi viene in mente va bene il paese, con cavallo e carrozza, cavallo e la carrozza con queste ragazze. Siamo, eravamo bene istruiti, siam passati tutti e però io non ho più potuto far scuola. Questo è quanto, questa è la mia scuola che ho fatto. Naturalmente poi ho avuto nel dopoguerra la fortuna di fare altro tipo di scuola e via ma così, scuola era questa, la mia scuola.
ZG: Senta, a proposito della maestra che diceva, quella qua a Milano. Allora innanzitutto prima un’altra domanda: la chiesa in cui lei faceva il chierichetto, è quella che poi è stata bombardata?
GP: Sì. La chiesa qui ad Affori è stata danneggiata, diciamo la parte posteriore sì.
ZG: E invece diceva che la sua maestra delle elementari qua a Milano era terribile. Mi sa spiegare il perché? Si ricorda qualche episodio?
GP: No, era semplicemente cattiva. Quando io le dico che era una fascista ed era fascio-clericale perché, metta assieme queste due cose, si può immaginare che cosa ne viene fuori. Io poi nel dopoguerra mi ricordo che, mi ricordo, c’era un amico che abitava qui anche lui che ha, con questa maestra che la conoscevo bene, aveva qualche anno più di me, e mi, ‘Eh, la Giacchero!’ ne abbiamo parlato ‘La Giacchero’, fa ‘volevamo andare a prenderla a casa, ma poi mi hanno sconsigliato, l’abbiamo lasciata perdere’. Per dire che era proprio una signora che si distingueva dalle altre per essere così cattiva e fascista insomma. Ecco questo. Non tutte erano così naturalmente ma quella, combinazione, l’ho avuta io. È andata così.
ZG: Invece, cambiando discorso, lei si ricorda dei tedeschi? A parte per quell’episodio del 25 aprile?
GP: Sì, sì, mi ricordo dei tedeschi. Mi ricordo dei tedeschi perché i tedeschi avevano occupato l’Alta Italia tutti i paesi, non soltanto dei presidi. Tutti i paesi piccoli e grandi erano presidiati. Noi avevamo lì, abitava vicino a dove abitavo io, nello stesso cortile avevamo un, era un sottoufficiale, era un sottoufficiale o ufficiale non di grande grado comunque abitava lì, quel tedesco lì. Poi c’erano altri, c’è un capitano, c’era dei piccoli presidi insomma in altre parti del paese ma io mi ricordo c’era questo capitano che aveva sequestrato un cavallo bello, che correva a cavallo nel viale del paese, per dire un ricordo perché questo. C’erano tedeschi c’erano anche lì. Dappertutto.
ZG: Che impressione le facevano?
GP: Boh, niente, diciamo che, mi ricordo che mio fratello è andato a rubargli la marmellata in un, c’era in questo caseggiato c’era un magazzino che mio nonno faceva il falegname. Quando sono arrivati i tedeschi han sequestrato tutto, mio nonno non ha fatto più il falegname e loro mettevano lì le vettovaglie e mio fratello con un altro ragazzo sono andati a rubargli le scatole di marmellata eccetera. Si vede che si sono accorti che c’erano, non lo so, e, e questo qui si è accorto e ci ha dato tante scudisciate che [laughs] insomma ecco. Però come persona non era corretta, non, con noi non ha mai detto niente, mai fatto niente. Ci tenevano a stare tranquilli, stavano bene lì quel paese.
ZG: Senta, tornando a quel episodio del 25 aprile, lei aveva già avuto contatti con dei partigiani?
GP: No. Chiariamo bene. I contatti che avevo io erano con gli imboscati, che era diverso. Nel senso che, in quel paese lì i partigiani non c’erano, non avevano niente a che vedere, erano nei paesi più grandi erano verso le colline, verso le montagne. Ma però c’erano gli imboscati voglio dire il. Nel ’43, l’8 settembre, l’esercito si sfasciava e ricordo che molti venivano nelle case, ricordo benissimo venivano anche là, si toglievano le divise e cercavano qualche giacca, qualche pantalone per far vedere che non erano militari, per sfuggire alla Decima MAS che già cominciava a sentirsi. E non i partigiani, solo gli imboscati, cioè coloro che avevano la possibilità di imboscarsi nelle soffitte, nelle campagne, eccetera, ecco. Però c’era qualcuno, c’era qualcuno che si preparava, che non era, era sì un imboscato, non è andato con i partigiani, non è andato con la Decima MAS, con la RSI italiana, i repubblichini, ma che però erano imboscati. Però qualcuno si preparava in quel 25 aprile e siccome io li conoscevo tutti, conoscevo morte, conoscevo morte, vite e miracoli del paese e quindi li conoscevo e sapevo che andavano a provare i mitra, mi ricordo che preparavano le armi per l’eventuale, ma questo gli ultimi giorni ecco, conoscevo questi imboscati diciamo. Partigiani veri e propri li ho conosciuti dopo ma non lì.
ZG: E quando queste persone qua si preparavano con le armi lei ha assistiteva?
GP: Sì, una volta mi ricordo che ero andato assieme e sparavano alle piante per vedere l’effetto che facevano insomma, per vedere le armi se andavano bene. C’avevano un mitra, c’avevano delle pistole, quel gruppo lì insomma che conoscevo io.
ZG: E poi il 25 aprile insomma andando là ha incontrato questo gruppo di partigiani.
GP: Questi gruppi di imboscati, c’erano uno, no, c’erano due forse partigiani che passavano, che davano un po’, che mi davano l’impressione che erano partigiani. Gli altri li conoscevo, erano gli imboscati che c’erano lì, si erano svegliati al momento opportuno. C’era forse una o due persone, una c’era sicuramente che si [unclear] era però il gruppo era quello lì.
ZG: Quindi furono questi imboscati che si erano appostati con la mitragliatrice all’incrocio.
GP: Sì, sì, sì.
ZG: Allora direi che con le domande sulla guerra ho finito. Le volevo chiedere a finita la guerra, lei si ricorda cosa è successo dopo? Siete tornati a Milano, insomma mi racconti un po’.
GP: Ho scritto un libro io.
ZG: Ah.
GP: Beh, molto interessante perché eravamo, diciamo qualcuno era fortunato che era riuscito a fare le scuole medie e andare avanti chi era rimasto a Milano ma la massa era come me, quinta elementare, senza lavoro però la cosa interessante è che il lavoro si trovava subito, c’era molto lavoro, c’era da ricostruire, e quindi sia mio fratello che io e che i miei amici abbiamo trovato da lavoro lì. Ma io vu fa l’elettricista, io vado a fare il meccanico, no, io faccio il panettiere, poi ci, assieme parlavamo e dicevamo: ‘Io vorrei fare questo, vorrei fare quello’. E c’era veramente la possibilità e ci siamo tutti impegnati a lavorare. Abbiamo lavorato da questo punto di vista. E qui io pensavo, speravo di andare a lavorare nella Ceretti e Tanfani, dove c’era mio padre. Il direttore del quale di questa ditta, aveva promesso a mia madre nel ’45 che mi avrebbe assunto appena poteva, ma al momento non poteva e non l’ha fatto. Faccio una parentesi. Questo direttore è stato messo al muro dai tedeschi con i compagni della ditta negli scioperi del ’44, negli scioperi del ’44 perché voi sapete nel ’43 e nel ’44 degli scioperi delle fabbriche di Milano, in particolare Sesto San Giovanni e la Bovisa, dove c’erano tante fabbriche e lì c’erano un gruppo, gli operai erano organizzati, fatto sciopero sono entrati i tedeschi e li hanno messi al muro e non hanno sparato, non gli hanno fatto niente, li hanno obbligato a riprendere il lavoro perché era una ditta ausiliaria, facevano dei lavori che interessavano ai tedeschi e quindi questo signore qui è rimasto direttore d’officina anche dopo la guerra e alla fine prima di essere, di andare via è riuscito ad assumermi, nel ’48 mi ha assunto. Questa persona. E io lì ho potuto capire, sentire tutti gli operai, capire cosa, come hanno vissuto, cosa hanno fatto nel periodo di guerra. E perché allora avevo, nel ’48 avevo diciassette anni ero, e avevo già gli speroni io, eran già due anni che lavoravo e quindi conoscevo già le difficoltà della vita. E quindi poi lì subito a vent’anni ero in commissione interna, facevo commissione interna, quindi conosco bene la vita della fabbrica, prima perché tutti gli amici mi conoscevano perché mio padre ogni tanto mi portava al dopolavoro e allora c’era il dopolavoro. Mi portava là che andavano a giocare alle bocce e poi a Natale c’erano i regali che allora era così durante il tempo del fascio. E tutti gli uomini anziani, gli operai mi conoscevano e quindi ho potuto entrare e conoscere bene le cose. Poi, c’è molto del dopoguerra ma.
ZG: Senta la scuola invece poi è riuscito ad andare avanti quindi?
GP: Sì, ho avuto la fortuna. Dunque intanto la scuola non potevo più nel senso che non avevo fatto le medie, non c’era ancora perché poi i sindacati sono riusciti a imporre la possibilità di fare le scuole medie a chi non le aveva fatte ma io avevo [sic] già troppo avanti. Allora quando sono entrato in Ceretti, la Ceretti aveva le scuole interne. Ho fatto matematica, meccanica e disegno, io poi ero appassionato del disegno, lo facevo prima di andare ancora lì. Ho fatto questi anni qui, questi due, e questo mi ha permesso di studiare perché poi ero uno che, mi piaceva, sapevo, ci capivo. Mi ricordo che il direttore gli diceva agli insegnanti che, gli insegnanti erano tutti gli ingegnieri della ditta, ma perché, perché non, deve andare a scuola questo qui, rimandatelo a scuola, come per dire, perché vedeva che capivo e insomma perchè non va non so, perché non va, ma io avevo la testa dall’altra parte, la testa dall’altra parte dal punto di vista sindacale-politico, per cui non ero, volevo fare quello e non andare a scuola, anche perché alla scuola non potevo andare. Quelle lì l’ho fatta perché mi interessava professionalmente. Vi dirò che ho fatto la vita politica, la vita sindacale fino a ventisei anni, poco eh, dieci anni, a ventisette, a ventisei anni mi sono sposato. Dopodiché ho capito una cosa, che non ero nelle condizioni di fare né il sindacalista né il politico perché la cultura era quella che era per cui, meno male, che ho voluto imparare la mia professione perché sarei stato un cattivo politico e un cattivo sindacalista, questo proprio convinto. Invece ho litigato all’interno della mia azienda per poter avere il mio posto di lavoro, perché allora ero martellato dall’azienda perché volevano disfarmi, disfarsi. Una serie di circostanze che forse è inutile, non interessa a nessuno però diciamo che mi hanno mandato fuori dall’azienda in un’altra azienda di proprietà della Redaelli di Rogoredo. Ho fatto un’esperienza notevole anche là. Dopodiché ho cominciato a lavorare all’esterno della ditta per l’azienda. Alla fine vi dirò che ho fatto il montatore, il capo montatore, il capocantiere, nel ’69 sono andato in ufficio come ispettore di montaggio. Io ho girato il mondo, per dire. America latina, America, Venezuela, andato in parecchi altri posti, son stato in Iran, son stato in Pakistan, son stato in quasi tutta l’Europa nel, e ho cominciato a ventisette anni, ho fatto il primo lavoro da capocantiere, avevo dieci montatori e nel ’59, ventotto anni, e ottanta operai in Sicilia. Ho fatto una teleferica di diciotto chilometri come capo montatore, avevo tutti i montatori della Ceretti, tutti esperti, tutta gente anziana, esperta e io ero, avevo fatto, avevo dieci anni di lavoro alle spalle, avevo fatto anche l’Iran sempre con i capi montatori, avevo fatto la mia esperienza, ma l’ispettore, il capo dell’ufficio montaggi, quando m’ha chiamato per andare in Sicilia per fare quel lavoro lì, ho detto: ’Va bene, vado, chi è che è il capo là?’, ‘No il capo lo fa lei’, ‘No, guardi, il capo lo fa lei’. ‘Sì perché lei’, m’ha detto, ‘io sono sicuro che con la sua savoir-faire volevo dire, il suo modo di fare, riesce a controllare la situazione perché vede, se mando Minisini, se mando Bersani, se mando, son tutti capi, uno che la vuol sapere più lunga degli altri e in effetti era tutta gente esperta. Però lei può metterse, metterli d’accordo, percé se mando uno di questi a fare il capo è una lite unica. Li conosco tutti, mi creda’. ‘Guardi, se lo dice lei’, e in effetti è andata così. Partendo da lì ho fatto presto a far carriera soprattutto perché avevo una cultura tecnica, nel senso che conoscevo il disegno, un po’ di matematica, la meccanica perché se ho fatto l’esperienza, e quindi è stato facile per me far carriera. Facile [laughs], non facile, ma ho potuto farla. E così sono riuscito a fare i miei quarant’anni e poi ho fatto sei anni di consulente dell’azienda. Ecco, questo è stato un po’ la mia carriera.
ZG: Ok, fantastico. Senta,
GP: Beh, forse questo pezzo non vi interesserà, ma insomma, tanto per.
ZG: No, no, no, teniamo tutto, non si preoccupi. Le faccio le ultime due domande. Lei all’epoca, all’epoca della guerra, cosa pensava di chi la bombardava, di chi bombardava?
GP: Le dirò: io sono stato molte volte, mi hanno chiamato nei rifugi a parlare dei bombardamenti e della guerra e i ragazzi diciamo della terza media, o la terza media in genere o la quinta, i ragazzi di diciotto anni, devo dire che è molto faticoso, molto faticoso perché non riescono a esprimersi, non parlano, non chiedono, fanno fatica, però qualche volta qualche domanda intelligente veniva fuori. Mi ricordo che uno ha chiesto: ‘Ma insomma, lei cosa ne pensa degli americani? In fondo hanno ammazzato suo padre, fatto bombardamenti, hanno ammazzato suo padre, quindi come la pensa da questo punto di vista?’. Cosa ho risposto? Dico: ’Sentite, è finita la guerra, ci siamo liberati, io ho avuto la sensazione che ci siamo liberati veramente da un giogo, ci siamo liberati dal fascismo, e io credo che sia stato inevitabile questo sacrificio che abbiamo fatto. Cosa posso fare? Cosa posso mettermi a odiare gli americani? Tutto sommato, gli americani sono anche morti per venirci a liberare. I soldati americani stavano bene in America ma sono venuti qui e ci hanno aiutato a liberarci. È vero, hanno fatto anche dei danni ma alla fine cosa possiamo dire? Cosa possiamo fare? Abbiamo di fronte un altro periodo e non con il giogo sulle spalle’.
ZG: Bene. Per me, se lei non ha altro da dire, finiamo qua. Grazie.

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Zeno Gaiaschi, “Interview with Giuseppe Pirovano,” IBCC Digital Archive, accessed April 19, 2024, https://ibccdigitalarchive.lincoln.ac.uk/omeka/collections/document/3601.

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