Interview with Giovanni Monchiero

Title

Interview with Giovanni Monchiero

Description

Giovanni Monchiero (b. 1923) gives a detailed account of his experience in labour camps in Germany: he started working at a train station but it was bombed, then he moved to the Opel garage but it was also bombed. He also describes an occasion when, during a bombing, he shared the shelter with Russian prisoners - men, women and children. Giovanni talks about the shock of seeing a bottle of milk shatter in front of him because of a change in pressure. He also recollects that he was finally moved to a civilian camp near Ludwigshafen and Mannheim.

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00:09:35 audio recording

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Contributor

Identifier

Memoro#6714

Transcription

GM: Ci han mandato alla stazione ferroviaria, loro avevano tanti, tanti locomotori diesel, e facevano conto di ripararli e di mettere noi per la riparazione di questa roba. Ma nella notte c’è venuto un bombardamento, hanno centrato in pieno la stazione della ferrovia, il magazzino, è andato giù tutto, e il lavoro lì è finito, non c’è rimasto più niente. Allora ho cercato un’altra sistemazione, lì insomma mi son dato da fare perché loro erano molto attivi, molto in gamba da quella parte lì. M’han mandato al garage della Opel in città, e lì ho lavorato, riparavamo camion, e li ho lavorato quindici giorni, venti giorni, e due o tre volte al giorno c’era l’allarme, bisognava scappare, bisognava cercare un rifugio, cercare modo di salvare la pelle. Solo che quella volta lì era un pomeriggio, il tedesco che ci comandava faceva la barba, faceva la barba, si era già insaponato tutto, suona l’allarme, noi scappiamo e lui ‘Eh ma scappate sempre, non è micca niente continuate a lavorare, ma cosa state lì a fare’. Troviamo un rifugio ci mettiamo dentro, solo all’ingresso perché dentro proprio noi non ci lasciavano entrare, ci mettevano fuori. Per un momento vedo il tedesco che arriva di gran corsa con metà la barba insaponata e metà no [laughs]. ‘Cos’hai fatto? Cos’hai fatto?’ ‘C’è caduta una bomba sul garage!’ perché avevamo un garage molto grande con il piano sopra così, non il tetto, un cos’. E allora quando è finito l’allarme siamo andati indietro a vedere, siam tornati là: non c’era più niente, era caduto giù tutto. E allora ci han lasciati lì un po’ di giorni, abitavamo in una cantina perché di fabbricati non ce n’eran più. Allora si scendeva una scala e si andava in cantina, avevamo messo delle assi sopra dei mattoni perché c’era anche un palmo d’acqua e si dormiva lì sopra. Però c’era un problema, non c’arrivano più i viveri, perché era tutto ormai a pezzi. E di lì han cercato di spostarci in un campo civile di italiani civili. Eravamo diciassette, diciotto amici [pause] di Alba, di Dronero, di, insomma, tutti di qua. E siamo andati a vedere, veniva buio: ‘Quel posto lì, mah questa baracca potrebbe andare bene’. Io l’ho guardata un momentino e ho detto: ‘No, io in questa baracca, stanotte non vengo a dormire perché non mi fido, ormai i disastri sono troppi, non si può, non si può stare qua, io vado via vuol dire che ci vediamo domani mattina’. E sono andato alla porta della fabbrica, forte di quella tessera lì, vado alla porta della fabbrica, presento la tessera, ma loro non mi lasciano entrare. Han detto ‘No, non si può entrare a quest’ora, perché non lavorate mica! Cosa va dentro a fare? ‘È un problema, problema...’. Mi sono seduto lì, ho aspettato fino alle 10, alle 11, pioviginava, e poi ho detto: ‘Prendo lungo il muro di cinta, da qualche parte il bombardamento ha buttato giù il muro e io entro dentro’. E sono entrato dentro, poi sono andato dove lavoravo, e sono andato nella cantina, e sempre lì con due palmi d’acqua, ho messo un po’ di mattoni, ho preso due tavole, le ho messe sopra, ho detto ‘Cosi’ dormo qua sono più sicuro’. Alla notte ci arriva il solito bombardamento che arrivava tutte le notti e siamo scappati c’era un posto di rifugio dove andavano i russi, perché i russi erano in Germania, deportati civili, famiglie intere, uomini donne bambini: c’era di tutto. E le donne le facevano lavorare per la ferrovia, le facevano lavorare per le strade, come gli uomini, preciso. E son andato lì e lì avevano questo rifugio, arriva l’allarme, scappo, sempre in questo rifugio, lì in piedi. C’era già un torinese lì, che non ricordo il nome, anche lui appoggiato lì, comincia il bombardamento: badabim, badabom, badabom. Si sentono dei colpi tremendi [emphasis]. Per trovare una scusa ‘È la contraerea che spara su, non è le bombe che scendono giù, mica possibile!’. A un certo punto, si vede che una bomba ci ha centrato, e il rifugio fa tutto così. Lì c’era un filtro per il gas, se per caso avessero buttato il gas, c’era una cosa che funzionava a mano, un ventilatore che funzionava a mano, che filtrava l’aria per il gas. Lì sopra c’era delle russe con dei bambini e c’avevano la bottiglia del latte. Come la bomba ha picchiato lì, io ho visto le bottiglie del latte che si sono spaccate e il latte è andato giù, senza prendere un colpo senza niente, si vede, non so, lo spostamento d’aria, cos’era. Ho detto: ‘Qua è finita, qua, non ci salviamo più, sarà la fine’. C’era delle panche, ho visto che i russi erano a pancia a terra sotto alle panche, ho detto: ‘È inutile, se la bomba cade proprio qua siamo partiti, andiamo tutti in paradiso, e non se ne parli più’. E poi invece ci siamo salvati, la cosa è andata ancora discretamente bene, ma noi eravamo disoccupati praticamente, perché i bombardamenti erano un disastro. Appunto una notte, scappando da questa cantina, per andare in un rifugio sulla piazza centrale, lì si fermava tutto, c’era il tram fermo per la strada, era buio e io correvo, e quando si sentiva la bomba che cadeva, vrrrr, uno si buttava per terra, contro un muro, contro qualcosa, e poi mi alzavo, partivo di nuovo di corsa, non ho visto il tram, ho picchiato dentro il tram [laughs] [unclear] con la testa rotta, ma sono riuscito ad arrivare al rifugio e salvarmi. Dopo un po’ di giorni c’è arrivato l'ingegnere e ci ha di nuovo trasferiti, ci hanno trasferiti a Berzabe’ [?] un paesino dieci chilometri fuori Ludwigshafen. Lì facevamo, riparavamo camion che portavano viveri e munizioni al fronte, perché il fronte era lì, oramai eravamo contro il fronte. Era un posto abbastanza tranquillo perché si vedevano i bombardamenti su Ludwigshafen, su Ludwigshafen e Mannheim, perché c’era il Reno che divideva Ludwigshafen e Mannheim, ma erano due città si può dire unite dai ponti e, si vedevano i bombardamenti, però noi lì non abbiamo più avuto bombardamenti, e siamo stati lì fin che c’è arrivati gli Americani.

Citation

“Interview with Giovanni Monchiero,” IBCC Digital Archive, accessed April 27, 2024, https://ibccdigitalarchive.lincoln.ac.uk/omeka/collections/document/83.

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