Interview with Gualtiero Silvio Cosolo
Title
Interview with Gualtiero Silvio Cosolo
Description
Gualtiero Silvio Cosolo recalls attending the Ceriani vocational school in Monfalcone, and every day at the same time the air raid siren went off and the children would run to the nearest shelter. He describes the bombing of 7 March 1944 and the gruesome sight of dead shipyard workers, an event which scared him for years to come. He remembers the sense of oppression when he first went to a public shelter, contrasting the behaviour of boys laughing out loudly and messing around with the composure of adults who looked worried and thoughtful. Gualtiero recalls the rivalries among boys from different towns and neighbourhoods and describes the blackout precautions of the dockyard workers. He recounts memories of his dad and friends who evaded roundup and managed to escape to Slovenia. They later took part in the Battle of Gorizia, a series of actions between Germans and partisans. He recalled acting as a lookout when partisans used his home as a meeting place.
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Date
2016-08-26
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00:34:54 audio recording
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This content is available under a CC BY-NC 4.0 International license (Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0). It has been published ‘as is’ and may contain inaccuracies or culturally inappropriate references that do not necessarily reflect the official policy or position of the University of Lincoln or the International Bomber Command Centre. For more information, visit https://creativecommons.org/licenses/by-nc/4.0/ and https://ibccdigitalarchive.lincoln.ac.uk/omeka/legal.
Identifier
ACosoloGS160826
Transcription
PC: Sono Pietro Comisso e sto per intervistare Gualtiero Silvio Cosolo per l’archivio dell’International Bomber Command Centre. Siamo a Turriaco, Gorizia, è il 26 08 2016. Grazie Silvio per aver permesso questa intervista. Prima di cominciare, vorrei farle alcune domande per essere sicuro che questa intervista venga registrata come desidera. È d’accordo che la sua intervista venga conservata presso l’Università di Lincoln, esclusivamente per scopi non commerciali, che l’università di Lincoln ne abbia il copyright e infine essere liberamente accessibile in qualsiasi formato per mostra, attività di ricerca, istruzione, come risorsa online?
GSC: Sì, vi do il consenso, molto volentieri.
PC: È d’accordo che il suo nome venga pubblicamente associato all’intervista?
GSC: Non ho nessuna contrarietà.
PC: È d’accordo di essere fotografato per l’archivio digitale dell’International Bomber Command Centre?
GSC: Sì, anche se non vengo bene perché ho le rughe ma a ottantaquattro anni non posso pretendere di più. E vorrei, se possibile, che mi faccia una bella fotografia.
PC: Grazie Silvio, possiamo cominciare. Allora, Silvio, mi dica qual’è il suo più vecchio ricordo a riguardo dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale.
GSC: Eh, questo qua è veramente un fatto singolare perché la prima esperienza che ho avuto, adesso io ho letto in qua e in là so che il bombardamento è stato effettuato il 17 marzo o giù di lì insomma del 1944 tra, il primo. Io mi son trovato proprio al centro di questo fatto perché frequentavo la scuola Ceriani, l’avviamento Ceriani di Monfalcone e quando è cominciato il, i bombardamenti naturalmente veniva suonata la sirena d’allarme e noi scappavamo tutti quanti perché ogni mattina succedeva questo, che passavano gli aerei che andavano a bombardare e suonava la sirena e noi scappavamo via con tutti i mezzi che avevamo. E non conoscendo la città di Monfalcone io distrattamente ho, credevo di far bene scappare verso la chiesa, verso il cantiere, così.
PC: Chiesa di Sant’Ambrogio?
GSC: No. Oh, perbacco. Verso l’Hannibal per esempio. La chiesa che finisce…
PC: Marcelliana.
GSC: Marcelliana, che era una chiesa dove si andava a fare le rogazioni cioè andavamo in processione da Turriaco a piedi naturalmente per le stradine per ogni anno si faceva questo voto. Io con la mia bicicletta mi trovai proprio nel momento che bombardavano il cantiere. E, o lo spostamento d’aria o la mia volontà di sopravvivenza, sono caduto nel fosso che era attorno il cimitero di Monfalcone ormai dismesso adesso e addirittura quando hanno cominciato mi cascava qualche pezzo di terra, qualcosa e sono stato testimone, mio malgrado, dei primi morti che hanno portato lì alla Marcelliana. Che l’impressione mi è durata per tantissimi anni, a veder questa carneficina, questi operai che venivano a brandelli, insomma è stato una, credo sia stato il più tremendo dei bombardamenti che aveva subìto e vedere tutto questo sangue, tutto questo, questi pezzi di, mi ha fatto almeno per dieci, quindici anni, ho avuto sempre questa impressione. E io mi son trovato proprio in questo frangente. Fortunatamente mi sono limitato a darmi una spolverata però ho visto quello che un ragazzo di dodici anni non avrebbe mai dovuto assistere. Ecco questa qua è stata la mia prima esperienza dopodichè non mi ricordo quanti altre volte hanno bombardato il cantiere, ma insomma a me era sufficiente aver assistito la prima volta. Questo è quanto. Le interessava di sapere qualcosa altro?
PC: Riguardo ai bombardamenti, quando avvenivano lei andava in rifugio antiaereo? Aveva un luogo preciso dove andava a rifugiarsi?
GSC: Allora questo qua anche che qualche tempo fa ho cercato di andare sul posto dov’era l’entrata della galleria, cioè l’uscita nella galleria che partiva dalla Piazza della Repubblica o come si chiama di fianco alla farmacia. C’era questo buco, questo bucone che non ho mai saputo per quale motivo era stata costruita, se durante la prima guerra mondiale o per la seconda. So che dopo questo bombardamento noi, specialmente delle scuole, correvamo sempre a rifugiarci dentro con biciclette tutto quanto dentro a questo. E mi ricordo questo posto che le prime volte mi faceva impressione perche c’era una farmacia dentro o qualche pronto soccorso poi c’era qualcosa che per dissetare quelli che avevano, no, niente di speciale. Ma adesso che rivivo in pratica questi momenti avrei piacere di visitarla a fondo perché mi è stato promesso. Quando ho fatto la mostra lì alla mutuo soccorso, c’era un responsabile, tra l’altro sarà anche suo amico perche s’interessava anche di reperti raccolti nella galleria, no, e mi aveva promesso che quando sarà mi inviterà a vedere e mi farebbe molto, molto piacere. Comunque eh quello che mi viene in mente quando mi prendevo questi appunti, potrei dare un suggerimento, se fosse necessario, a sollecitare chi di dovere cioè le autorità. Perché non valorizzare questo reperto storico per creare una galleria vera e propria. Potrebbe essere una galleria d’arte, si potrebbe trasformare in altre attività perché il posto anche sicuramente, anche se non è tanto accogliente però si può fare. Io, nel mio libro se posso parlare di questo, addirittura sfrutto le gallerie del Klondike, dell’Alaska e Siberia per, perché stanno realizzando un progetto della costruzione di una città che puo’ ospitare novecentomila, un milione di persone per sopravvivere alla futura e prossima fine del mondo. E se lo fanno loro e lo spiego anche perché usufruendo di qualche condotto che proviene del nucleo della Terra che ha seimila metri, un ingegnere italiano ha scoperto la maniera di usufruire di questa energia per creare l’acqua, l’aria e tutto ciò che occorre per fare, per dare la sopravvivenza a questo popolo. È un progetto futuribile naturalmente e naturalmente come tutte le novità, come tutte le cose anormali, sarà messo in forte discussione, sarà contraddetto magari, che non si può così non si può colà. Io nel, in questo libro spiego tutte queste cose e può darsi che mi diano anche del pazzo.
PC: Una domanda mi veniva in mente. Lei praticamente era un ragazzino esposto a questa esperienza drammatica dei bombardamenti aerei. Nel tunnel, visto che mi raccontava che c’andavate con tutti gli altri ragazzini della scuola, cosa facevate mentre eravate lì dentro?
GSC: Eh, sicuramente quella volta non si diceva casino, perché era una parola troppo grossa, però cagnara sì. Facevamo cagnara perché per noi dato che… Forse sono stato l’unico a avere un’esperienza diretta del primo bombardamento, li altri ridevano, la raccontavano, spintoni. Noi, specialmente i bisiacchi, che provenivano dai paesi della Bisiacaria, Turriaco, Pieris, San Canzian, non eravamo ben accolti dai monfalconesi, che erano, i monfalconesi erano sempre ben vestiti, fighetti, e quando che arrivava i bisiacchi, noi eravamo [background noise] o le papuze o i socui se posso dirlo e come vivavamo a casa così portavamo avanti il dialetto che avevamo imparato dai nostri anziani, dai nonni. E quando arrivavamo in classe, ‘oh, xe rivà, ga dit, ga ciot, ga fat,’ come che parlavasi quella volta. E c’era questo contrasto e i ne cioleva un pochetin pel fioco proprio perché parlavisi il bisiacco. Adesso magari tutti quanti vorrebbero essere bisiacchi, tutti quanti vogliono avere la radice bisiacca come fosse un marchio di fabbrica. E invece io sono testimone del contrario, che invece c’era un certo disprezzo come una razza inferiore ecco i bisiacchi. Non parlo di più perche’ ho tantissimi amici di Monfalcone, eh, con cui ho avuto e ho rapporti amichevoli e così, non voglio tradire questa mia amicizia, questa ammirazione che ho per loro.
PC: Dunque lei mi parla della gente di Monfalcone. Le persone di Monfalcone invece? Voi eravate ragazzini ma gli abitanti civili, le donne, gli uomini che erano rifugiati lì dentro invece cosa facevano nelle ore di attesa?
GSC: Diciamo che tutti quanti erano preoccupati, contrariamente a come si comportavano i ragazzi. Perché avevano della gente forse esposta, paura dei bombardamenti, specialmente quelli che lavoravano, era il 90% che lavorava in cantiere e naturalmente i genitori, i vecchi genitori erano preoccupati di altri bombardamenti, altre cose, perché anche la via romana, mi sembra è stato bombardato e mi ricordo la salita, della salita per andare alla stazione, sempre mi ricordo di un palazzo che è stato bombardato e c’erano stati anche dei morti. Eh, si volevo aggiungere una cosa, mi son dimenticato prima che noi ragazzi per frequentare la scuola dovevamo, se c’erano i bombardamenti o le, scappavamo via quando erano le sirene d’allarme dovevamo frequentare per recuperare le ore che perdevamo alla mattina, dovevamo tornare e il pomeriggio. Allora in questi casi qua dovevamo preparare il vasetto della pasta, della minestra da casa, e dove si fa sulla strada, no. Allora attraversavamo la galleria, andavamo su per il colle della Rocca, su due tre pietre facevamo un po’ di fuoco e mettevamo il vasetto della minestra per scaldare e approfittando di quella oretta che ci rimaneva al riparo delle pietre, di qualche pietra, di qualche coso, si ripassava le lezioni. Faccio per non è per un vanto però per far sapere ai nostri ragazzi che si lamentano sempre, e perche la, e la corriera e l’autobus e tutte queste cose qua, invece noi dovevamo adattarci a questo, a questo genere di cose per la sopravvivenza naturalmente e la scuola ne soffriva perché quello che io ho imparato è forse zero rispetto a quello che ho imparato dopo da solo con la mia volontà, leggere e frequentare corsi e tutto quanto, beh per recuperare quello che non avevo imparato a scuola. Naturalmente erano i tempi che erano. Perché quando ci portavamo a Monfalcone con il carro bestiame, coi operai andavamo fino al cantiere, dal cantiere a piedi fino a scuola. E dopo si finiva a mezzogiorno e dovevamo tornare a casa nei vari paesi a piedi e dov’era eh lungo la ferrovia, lungo la ferrovia e per venire a casa da Monfalcone ci volevano due ore almeno. E figurarsi in strada noi giocavamo anche perché i ragazzi malgrado tutte le condizioni avverse, rimangono sempre ragazzi con voglia di divertirsi e di scherzare.
PC: Quindi lei mi diceva, ma mi faccia capire bene, com’era effettivamente viaggiare con il pericolo di, che ci possa essere sempre un attacco aereo, lo spostarsi in quegli anni lì? C’era tensione, c’era paura? C’erano degli ovvi disagi?
GSC: Il disagio era proprio costituito dal fatto che bisognava tornare a casa a piedi e non era sempre tanto piacevole, specialmente d’inverno o con la pioggia, con tutti i tempi. Una cosa che invece era faticoso perché anche viaggiare sa, anche un treno anche se era merci ma in dieci minuti, un quarto d’ora arrivavamo a Monfalcone e non erano grandi viaggi, dove che, sì, poteva, poteva esserci questi fatti di bombardamenti. Ci si sbrigava subito. Quello che era invece più faticoso era andare con la bicicletta che siccome che mancavano le gomme, i copertoni delle biciclette, avevamo delle, dei tubi del vino, le canne da vino a mo’ di copertoni. Per cui era come le biciclette di Enrico Toti, non so se ha idea di, e la fatica era tantissima, specialmente in febbraio quando c’era il vento che durava un mese anche e noi andavamo sul crocevia di Begliano a aspettare la fila degli operai che si recavano al cantiere, e per attaccarsi alla coda perché davanti c’era sempre il più muscoloso che portava avanti la fila, come si vede adesso anche nelle gare ciclistiche c’è sempre uno che si alterna, che tira la coda. Noi facevamo lo stesso là però tutto ciò la fatica era enorme perché per ragazzi di undici, dodici anni, sa, maneggiare queste biciclette era un po’ difficile. Ma pericoli, pericoli, no, però s’incontravano delle scene naturalmente crude, nel senso che una volta proprio sul crocevia di Begliano c’era un rallentamento anche nella fila degli operai perché sulla strada erano quattro morti, quattro partigiani morti, che li avevano uccisi a mitraglia, a mitragliate, i repubblichini e li avevano lasciati lì. Mi ricordo tutti questi cadaveri, tutto l’asfalto pieno di sangue e anche quello è stato un fatto doloroso. Questi qua erano partigiani che li avevano imprigionati prima alle prigioni di Pieris e poi durante la notte li hanno liberati però c’era qualcuno che li aspettava per fucilarli. Questo qua è stato forse la cosa più brutta che mi è successo. E poi si vedevano delle camionette bruciate perché i partigiani quella volta erano molto attivi e non è che attaccavano le caserme però facevano azione di disturbo, come mettere qualche, far saltare obiettivi che erano importanti per i tedeschi e infatti sono delle cose che succedevano molto di frequente fino alla grande battaglia di Gorizia che è stato così, se posso raccontare?
PC: Mammamia!
GSC: L’8 settembre del ’43 mio padre che era in cantiere è stato avvertito insieme a altri compagni, sono riusciti a scappare dal retro del cantiere perché li hanno avvertiti che fuori c’erano dei camion che caricavano tutti gli operai che uscivano dal cantiere per portarli in Germania, così com’erano, in tuta o con abiti da lavoro e mio padre con altri sette, otto, sono riusciti a scappare e sono arrivati fino a Selz con la bicicletta e poi sono andati su in montagna, sono andati verso i paesi della Slovenia, della Yugoslavia quella volta, però Opacchiasella, mi raccontava questi particolari mio padre. Sai, tutti quei paesini lì e lì hanno combattuto ma non battaglie di grosse perché loro facevano azione di disturbo, nelle stazioni disturbavano i telefoni e le linee, azione più che altro di disturbo. E quando si preannunciava la grande offensiva dei tedeschi, tutta la gente dei nostri paesi era preoccupata perché si sentivano i rumori dei carri armati, di tutte le armi, cannoni, tutti quanti, si sentiva per tutta la notte che andavano sù. Risultato che seimila tedeschi armati fino ai denti si portavano verso le montagne per scatenare l’offensiva contro questi partigiani, che non erano tanti ma però davano disturbo. E c’è stato un fatto che mi ha addolorato e cioè mia madre che piangeva tutto il giorno perché si rendeva conto della gravità della situazione. Fortunatamente i capi dei partigiani, quella volta di buon senso, hanno avvertito tutti i capi famiglia, gli uomini che avevano famiglie e figli, li mandavano a casa, e difatti una sera e cioè la vigilia proprio della grande battaglia mio padre è venuto a casa e starei qua delle ore per raccontare quello che era successo ma naturalmente si può immaginare in che stato si trovava quest’uomo, in quali condizioni, magro, con la barba lunga, pieno di pidocchi, vestiti alla meglio come si poteva, con scarpe piene di paglia per poterli indossare. E dopo naturalmente viveva in, da clandestino e a casa mia avevano trovato saltuariamente un posto dove riunire il gruppo di partigiani cioè quelli che operavano per reperire viveri, armi e tutto quanto per mandare su. Per cui erano cinque o sei persone che si riunivano a volte in una casa una volta in un’altra e la mia casa che si trovava su questa strada, la via principale, e mi mandavano a stare dentro e avvertire se venivano, se passavano camion di tedeschi perché quasi ogni giorno c’era il rastrellamento, arrivavano due o tre camion in piazza, saltavano giù i tedeschi e i repubblichini coi mitra spianati e facevano ognuno una via e prendevano sempre qualcuno perché qua erano quasi tutti i ragazzi partigiani. E io facevo da vendetta. Non sapevo l’importanza però oggi mi rendo conto che anch’io ho contribuito in qualche maniera perché mi davano dei bigliettini da portare a Tizio, Caio, Sempronio, che erano partigiani che facenti parte del Comitato di Liberazione e mi rendo conto che anch’io ho portato il mio granellino sul mucchio della libertà e sono fiero di aver partecipato. Quello che si fa è naturalmente a fin di bene.
PC: Volevo farle ancora una domanda per ritornare alla guerra aerea. Lei mi ha raccontato di questa esperienza terribile di vedere queste scene dei, gli operai del cantiere smembrati, portati. Cosa pensa, adesso dopo tutti questi anni, dei bombardamenti aerei? Cosa le è rimasto? Prova un senso di rabbia o di, per chi li provocava o magari ha capito quello che poteva essere lo scopo di quegli atti anche così violenti e brutali come potevano essere i bombardamenti aerei?
GSC: [sigh] Naturalmente la guerra è una cosa che non porta sicuramente dei benefici. Cioè forse sbaglio. I benefici ce li hanno chi costruisce le bombe, chi costruisce le armi, è un business, e quando le guerre non ci sono, le inventano, perché proprio è un business. In fatto di paura naturalmente nel nostro paese qua esistevano, esistono ancora ma sono inglobate nelle case che sono state costruite dopo, delle trincee, delle grandi trincee che erano state costruite durante la guerra del ’15-’18 e avevano degli stanzoni grandi dove qualcuno s’era [pause] aveva creduto opportuno per salvare i bambini dai bombardamenti, di farli dormire in queste trincee e noi avevamo qua vicino al campo sportivo una trincea che si prestava benissimo per cui stavano 25, 30 bambini, in qualche maniera, e noi bambini e i vecchi andavamo ogni sera lì a dormire in questa, in questi stanzoni. Proprio la preoccupazione era di Pippo si chiamava, noi l’avevamo battezzato Pippo, che era un aereo da bombardamento che passava su tutti i paesi, ma girava proprio tutta la notte e dove vedeva delle luci buttava giù i spezzoni, naturalmente qua a Begliano nelle casette avevano buttato e era morta una ragazza di diciotto anni e quello ci ha fatto tanta impressione. Proprio da lì era scaturita questa idea di farci dormire nelle trincee, perché anche durante la notte era pericolo, gli operai che andavano o che venivano a casa avevano i fanali coperti da un pezzo di carta di giornale con un buchino giusto che passava un lumicino di luce per poter, e anche queste qua, questi fatti naturalmente comportava dei pericoli, perché io non so come riuscivano a individuare delle piccole luci da mille metri non so appunto, viaggiava questo apparecchio, questo Pippo. E però faceva paura, guai aprire la finestra, guai aprire la porta, guai fuori perché c’era sempre questo star sul chi va là delle bombe. Altri fatti, non so, da menzionare, così come, non so, l’uccisione per esempio, ma quello forse è un’altra cosa. Avevano ucciso per vendette perché non lo voglio dire perché potrebbe essere interpretato nella maniera sbagliata, però succedeva anche nei paesi. Per esempio, questo lo posso dire, un certo Walter, che era una spia dei nazisti, dei repubblichini che erano quelli dell’esercito del duce dopo l’8 settembre. Quello è stato ucciso in ospedale, cioè gli hanno sparato in ospedale e visto che non era ancora morto l’hanno ucciso, sono andati là i partigiani e l’hanno ucciso e mi sembra di ricordare che hanno ucciso anche sua madre che lo assisteva. Walter, Walter si chiamava. È una cosa che ti faceva non piacere ma era come un senso di giustizia dato che questo Walter, questo famigerato Walter era uno spione e tutti quanti applaudirono a questo fatto perché era come Zorro che difendeva i più deboli e per noi era stato un fatto molto grave.
PC: D’accordo. Silvio, la ringrazio infinitamente, se ha qualche altro.
GSC: Forse ho chiacchierato più del.
PC: No, ma va molto bene. Io la ringrazio della, dell’intervista e grazie di nuovo, anche a nome della Lincoln.
GSC: Non è facile naturalmente, parlare, descrivere con, perché se uno legge qualcosa di preparato è difficile io ritengo.
PC: Andava benissimo.
GSP: Ritengo.
PC: Andava benissimo.
GSC: Io ho questo, ma forse non interessa. Io ho cominciato avere i ricordi della mia vita quando avevo due anni e mezzo. Qua ho cominciato con i primi ricordi, e sono andato avanti descrivendo un po’ quello che succedeva nei paesi, quello che succedeva nella mia famiglia, sono anche storie personali, ma posso tranquillamente vantarmi perché non c’è qualcosa di offensivo per nessuno. Sono arrivato fino al, non è la conclusione perché qua ho messo continua però sono arrivato fino al ’45, concludendo che la guerra aveva provocato 40 milioni di morti. Se lei ha.
PC: Con molto piacere, con molto piacere.
GSC: Un quarto d’ora, venti minuti.
PC: Sicuramente.
GSC: Da leggere.
PC: La ringrazio infinitamente.
GSC: Puo darsi che trovi qualche spunto per continuare il suo lavoro.
PC: Grazie mille.
GSC: Sì, vi do il consenso, molto volentieri.
PC: È d’accordo che il suo nome venga pubblicamente associato all’intervista?
GSC: Non ho nessuna contrarietà.
PC: È d’accordo di essere fotografato per l’archivio digitale dell’International Bomber Command Centre?
GSC: Sì, anche se non vengo bene perché ho le rughe ma a ottantaquattro anni non posso pretendere di più. E vorrei, se possibile, che mi faccia una bella fotografia.
PC: Grazie Silvio, possiamo cominciare. Allora, Silvio, mi dica qual’è il suo più vecchio ricordo a riguardo dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale.
GSC: Eh, questo qua è veramente un fatto singolare perché la prima esperienza che ho avuto, adesso io ho letto in qua e in là so che il bombardamento è stato effettuato il 17 marzo o giù di lì insomma del 1944 tra, il primo. Io mi son trovato proprio al centro di questo fatto perché frequentavo la scuola Ceriani, l’avviamento Ceriani di Monfalcone e quando è cominciato il, i bombardamenti naturalmente veniva suonata la sirena d’allarme e noi scappavamo tutti quanti perché ogni mattina succedeva questo, che passavano gli aerei che andavano a bombardare e suonava la sirena e noi scappavamo via con tutti i mezzi che avevamo. E non conoscendo la città di Monfalcone io distrattamente ho, credevo di far bene scappare verso la chiesa, verso il cantiere, così.
PC: Chiesa di Sant’Ambrogio?
GSC: No. Oh, perbacco. Verso l’Hannibal per esempio. La chiesa che finisce…
PC: Marcelliana.
GSC: Marcelliana, che era una chiesa dove si andava a fare le rogazioni cioè andavamo in processione da Turriaco a piedi naturalmente per le stradine per ogni anno si faceva questo voto. Io con la mia bicicletta mi trovai proprio nel momento che bombardavano il cantiere. E, o lo spostamento d’aria o la mia volontà di sopravvivenza, sono caduto nel fosso che era attorno il cimitero di Monfalcone ormai dismesso adesso e addirittura quando hanno cominciato mi cascava qualche pezzo di terra, qualcosa e sono stato testimone, mio malgrado, dei primi morti che hanno portato lì alla Marcelliana. Che l’impressione mi è durata per tantissimi anni, a veder questa carneficina, questi operai che venivano a brandelli, insomma è stato una, credo sia stato il più tremendo dei bombardamenti che aveva subìto e vedere tutto questo sangue, tutto questo, questi pezzi di, mi ha fatto almeno per dieci, quindici anni, ho avuto sempre questa impressione. E io mi son trovato proprio in questo frangente. Fortunatamente mi sono limitato a darmi una spolverata però ho visto quello che un ragazzo di dodici anni non avrebbe mai dovuto assistere. Ecco questa qua è stata la mia prima esperienza dopodichè non mi ricordo quanti altre volte hanno bombardato il cantiere, ma insomma a me era sufficiente aver assistito la prima volta. Questo è quanto. Le interessava di sapere qualcosa altro?
PC: Riguardo ai bombardamenti, quando avvenivano lei andava in rifugio antiaereo? Aveva un luogo preciso dove andava a rifugiarsi?
GSC: Allora questo qua anche che qualche tempo fa ho cercato di andare sul posto dov’era l’entrata della galleria, cioè l’uscita nella galleria che partiva dalla Piazza della Repubblica o come si chiama di fianco alla farmacia. C’era questo buco, questo bucone che non ho mai saputo per quale motivo era stata costruita, se durante la prima guerra mondiale o per la seconda. So che dopo questo bombardamento noi, specialmente delle scuole, correvamo sempre a rifugiarci dentro con biciclette tutto quanto dentro a questo. E mi ricordo questo posto che le prime volte mi faceva impressione perche c’era una farmacia dentro o qualche pronto soccorso poi c’era qualcosa che per dissetare quelli che avevano, no, niente di speciale. Ma adesso che rivivo in pratica questi momenti avrei piacere di visitarla a fondo perché mi è stato promesso. Quando ho fatto la mostra lì alla mutuo soccorso, c’era un responsabile, tra l’altro sarà anche suo amico perche s’interessava anche di reperti raccolti nella galleria, no, e mi aveva promesso che quando sarà mi inviterà a vedere e mi farebbe molto, molto piacere. Comunque eh quello che mi viene in mente quando mi prendevo questi appunti, potrei dare un suggerimento, se fosse necessario, a sollecitare chi di dovere cioè le autorità. Perché non valorizzare questo reperto storico per creare una galleria vera e propria. Potrebbe essere una galleria d’arte, si potrebbe trasformare in altre attività perché il posto anche sicuramente, anche se non è tanto accogliente però si può fare. Io, nel mio libro se posso parlare di questo, addirittura sfrutto le gallerie del Klondike, dell’Alaska e Siberia per, perché stanno realizzando un progetto della costruzione di una città che puo’ ospitare novecentomila, un milione di persone per sopravvivere alla futura e prossima fine del mondo. E se lo fanno loro e lo spiego anche perché usufruendo di qualche condotto che proviene del nucleo della Terra che ha seimila metri, un ingegnere italiano ha scoperto la maniera di usufruire di questa energia per creare l’acqua, l’aria e tutto ciò che occorre per fare, per dare la sopravvivenza a questo popolo. È un progetto futuribile naturalmente e naturalmente come tutte le novità, come tutte le cose anormali, sarà messo in forte discussione, sarà contraddetto magari, che non si può così non si può colà. Io nel, in questo libro spiego tutte queste cose e può darsi che mi diano anche del pazzo.
PC: Una domanda mi veniva in mente. Lei praticamente era un ragazzino esposto a questa esperienza drammatica dei bombardamenti aerei. Nel tunnel, visto che mi raccontava che c’andavate con tutti gli altri ragazzini della scuola, cosa facevate mentre eravate lì dentro?
GSC: Eh, sicuramente quella volta non si diceva casino, perché era una parola troppo grossa, però cagnara sì. Facevamo cagnara perché per noi dato che… Forse sono stato l’unico a avere un’esperienza diretta del primo bombardamento, li altri ridevano, la raccontavano, spintoni. Noi, specialmente i bisiacchi, che provenivano dai paesi della Bisiacaria, Turriaco, Pieris, San Canzian, non eravamo ben accolti dai monfalconesi, che erano, i monfalconesi erano sempre ben vestiti, fighetti, e quando che arrivava i bisiacchi, noi eravamo [background noise] o le papuze o i socui se posso dirlo e come vivavamo a casa così portavamo avanti il dialetto che avevamo imparato dai nostri anziani, dai nonni. E quando arrivavamo in classe, ‘oh, xe rivà, ga dit, ga ciot, ga fat,’ come che parlavasi quella volta. E c’era questo contrasto e i ne cioleva un pochetin pel fioco proprio perché parlavisi il bisiacco. Adesso magari tutti quanti vorrebbero essere bisiacchi, tutti quanti vogliono avere la radice bisiacca come fosse un marchio di fabbrica. E invece io sono testimone del contrario, che invece c’era un certo disprezzo come una razza inferiore ecco i bisiacchi. Non parlo di più perche’ ho tantissimi amici di Monfalcone, eh, con cui ho avuto e ho rapporti amichevoli e così, non voglio tradire questa mia amicizia, questa ammirazione che ho per loro.
PC: Dunque lei mi parla della gente di Monfalcone. Le persone di Monfalcone invece? Voi eravate ragazzini ma gli abitanti civili, le donne, gli uomini che erano rifugiati lì dentro invece cosa facevano nelle ore di attesa?
GSC: Diciamo che tutti quanti erano preoccupati, contrariamente a come si comportavano i ragazzi. Perché avevano della gente forse esposta, paura dei bombardamenti, specialmente quelli che lavoravano, era il 90% che lavorava in cantiere e naturalmente i genitori, i vecchi genitori erano preoccupati di altri bombardamenti, altre cose, perché anche la via romana, mi sembra è stato bombardato e mi ricordo la salita, della salita per andare alla stazione, sempre mi ricordo di un palazzo che è stato bombardato e c’erano stati anche dei morti. Eh, si volevo aggiungere una cosa, mi son dimenticato prima che noi ragazzi per frequentare la scuola dovevamo, se c’erano i bombardamenti o le, scappavamo via quando erano le sirene d’allarme dovevamo frequentare per recuperare le ore che perdevamo alla mattina, dovevamo tornare e il pomeriggio. Allora in questi casi qua dovevamo preparare il vasetto della pasta, della minestra da casa, e dove si fa sulla strada, no. Allora attraversavamo la galleria, andavamo su per il colle della Rocca, su due tre pietre facevamo un po’ di fuoco e mettevamo il vasetto della minestra per scaldare e approfittando di quella oretta che ci rimaneva al riparo delle pietre, di qualche pietra, di qualche coso, si ripassava le lezioni. Faccio per non è per un vanto però per far sapere ai nostri ragazzi che si lamentano sempre, e perche la, e la corriera e l’autobus e tutte queste cose qua, invece noi dovevamo adattarci a questo, a questo genere di cose per la sopravvivenza naturalmente e la scuola ne soffriva perché quello che io ho imparato è forse zero rispetto a quello che ho imparato dopo da solo con la mia volontà, leggere e frequentare corsi e tutto quanto, beh per recuperare quello che non avevo imparato a scuola. Naturalmente erano i tempi che erano. Perché quando ci portavamo a Monfalcone con il carro bestiame, coi operai andavamo fino al cantiere, dal cantiere a piedi fino a scuola. E dopo si finiva a mezzogiorno e dovevamo tornare a casa nei vari paesi a piedi e dov’era eh lungo la ferrovia, lungo la ferrovia e per venire a casa da Monfalcone ci volevano due ore almeno. E figurarsi in strada noi giocavamo anche perché i ragazzi malgrado tutte le condizioni avverse, rimangono sempre ragazzi con voglia di divertirsi e di scherzare.
PC: Quindi lei mi diceva, ma mi faccia capire bene, com’era effettivamente viaggiare con il pericolo di, che ci possa essere sempre un attacco aereo, lo spostarsi in quegli anni lì? C’era tensione, c’era paura? C’erano degli ovvi disagi?
GSC: Il disagio era proprio costituito dal fatto che bisognava tornare a casa a piedi e non era sempre tanto piacevole, specialmente d’inverno o con la pioggia, con tutti i tempi. Una cosa che invece era faticoso perché anche viaggiare sa, anche un treno anche se era merci ma in dieci minuti, un quarto d’ora arrivavamo a Monfalcone e non erano grandi viaggi, dove che, sì, poteva, poteva esserci questi fatti di bombardamenti. Ci si sbrigava subito. Quello che era invece più faticoso era andare con la bicicletta che siccome che mancavano le gomme, i copertoni delle biciclette, avevamo delle, dei tubi del vino, le canne da vino a mo’ di copertoni. Per cui era come le biciclette di Enrico Toti, non so se ha idea di, e la fatica era tantissima, specialmente in febbraio quando c’era il vento che durava un mese anche e noi andavamo sul crocevia di Begliano a aspettare la fila degli operai che si recavano al cantiere, e per attaccarsi alla coda perché davanti c’era sempre il più muscoloso che portava avanti la fila, come si vede adesso anche nelle gare ciclistiche c’è sempre uno che si alterna, che tira la coda. Noi facevamo lo stesso là però tutto ciò la fatica era enorme perché per ragazzi di undici, dodici anni, sa, maneggiare queste biciclette era un po’ difficile. Ma pericoli, pericoli, no, però s’incontravano delle scene naturalmente crude, nel senso che una volta proprio sul crocevia di Begliano c’era un rallentamento anche nella fila degli operai perché sulla strada erano quattro morti, quattro partigiani morti, che li avevano uccisi a mitraglia, a mitragliate, i repubblichini e li avevano lasciati lì. Mi ricordo tutti questi cadaveri, tutto l’asfalto pieno di sangue e anche quello è stato un fatto doloroso. Questi qua erano partigiani che li avevano imprigionati prima alle prigioni di Pieris e poi durante la notte li hanno liberati però c’era qualcuno che li aspettava per fucilarli. Questo qua è stato forse la cosa più brutta che mi è successo. E poi si vedevano delle camionette bruciate perché i partigiani quella volta erano molto attivi e non è che attaccavano le caserme però facevano azione di disturbo, come mettere qualche, far saltare obiettivi che erano importanti per i tedeschi e infatti sono delle cose che succedevano molto di frequente fino alla grande battaglia di Gorizia che è stato così, se posso raccontare?
PC: Mammamia!
GSC: L’8 settembre del ’43 mio padre che era in cantiere è stato avvertito insieme a altri compagni, sono riusciti a scappare dal retro del cantiere perché li hanno avvertiti che fuori c’erano dei camion che caricavano tutti gli operai che uscivano dal cantiere per portarli in Germania, così com’erano, in tuta o con abiti da lavoro e mio padre con altri sette, otto, sono riusciti a scappare e sono arrivati fino a Selz con la bicicletta e poi sono andati su in montagna, sono andati verso i paesi della Slovenia, della Yugoslavia quella volta, però Opacchiasella, mi raccontava questi particolari mio padre. Sai, tutti quei paesini lì e lì hanno combattuto ma non battaglie di grosse perché loro facevano azione di disturbo, nelle stazioni disturbavano i telefoni e le linee, azione più che altro di disturbo. E quando si preannunciava la grande offensiva dei tedeschi, tutta la gente dei nostri paesi era preoccupata perché si sentivano i rumori dei carri armati, di tutte le armi, cannoni, tutti quanti, si sentiva per tutta la notte che andavano sù. Risultato che seimila tedeschi armati fino ai denti si portavano verso le montagne per scatenare l’offensiva contro questi partigiani, che non erano tanti ma però davano disturbo. E c’è stato un fatto che mi ha addolorato e cioè mia madre che piangeva tutto il giorno perché si rendeva conto della gravità della situazione. Fortunatamente i capi dei partigiani, quella volta di buon senso, hanno avvertito tutti i capi famiglia, gli uomini che avevano famiglie e figli, li mandavano a casa, e difatti una sera e cioè la vigilia proprio della grande battaglia mio padre è venuto a casa e starei qua delle ore per raccontare quello che era successo ma naturalmente si può immaginare in che stato si trovava quest’uomo, in quali condizioni, magro, con la barba lunga, pieno di pidocchi, vestiti alla meglio come si poteva, con scarpe piene di paglia per poterli indossare. E dopo naturalmente viveva in, da clandestino e a casa mia avevano trovato saltuariamente un posto dove riunire il gruppo di partigiani cioè quelli che operavano per reperire viveri, armi e tutto quanto per mandare su. Per cui erano cinque o sei persone che si riunivano a volte in una casa una volta in un’altra e la mia casa che si trovava su questa strada, la via principale, e mi mandavano a stare dentro e avvertire se venivano, se passavano camion di tedeschi perché quasi ogni giorno c’era il rastrellamento, arrivavano due o tre camion in piazza, saltavano giù i tedeschi e i repubblichini coi mitra spianati e facevano ognuno una via e prendevano sempre qualcuno perché qua erano quasi tutti i ragazzi partigiani. E io facevo da vendetta. Non sapevo l’importanza però oggi mi rendo conto che anch’io ho contribuito in qualche maniera perché mi davano dei bigliettini da portare a Tizio, Caio, Sempronio, che erano partigiani che facenti parte del Comitato di Liberazione e mi rendo conto che anch’io ho portato il mio granellino sul mucchio della libertà e sono fiero di aver partecipato. Quello che si fa è naturalmente a fin di bene.
PC: Volevo farle ancora una domanda per ritornare alla guerra aerea. Lei mi ha raccontato di questa esperienza terribile di vedere queste scene dei, gli operai del cantiere smembrati, portati. Cosa pensa, adesso dopo tutti questi anni, dei bombardamenti aerei? Cosa le è rimasto? Prova un senso di rabbia o di, per chi li provocava o magari ha capito quello che poteva essere lo scopo di quegli atti anche così violenti e brutali come potevano essere i bombardamenti aerei?
GSC: [sigh] Naturalmente la guerra è una cosa che non porta sicuramente dei benefici. Cioè forse sbaglio. I benefici ce li hanno chi costruisce le bombe, chi costruisce le armi, è un business, e quando le guerre non ci sono, le inventano, perché proprio è un business. In fatto di paura naturalmente nel nostro paese qua esistevano, esistono ancora ma sono inglobate nelle case che sono state costruite dopo, delle trincee, delle grandi trincee che erano state costruite durante la guerra del ’15-’18 e avevano degli stanzoni grandi dove qualcuno s’era [pause] aveva creduto opportuno per salvare i bambini dai bombardamenti, di farli dormire in queste trincee e noi avevamo qua vicino al campo sportivo una trincea che si prestava benissimo per cui stavano 25, 30 bambini, in qualche maniera, e noi bambini e i vecchi andavamo ogni sera lì a dormire in questa, in questi stanzoni. Proprio la preoccupazione era di Pippo si chiamava, noi l’avevamo battezzato Pippo, che era un aereo da bombardamento che passava su tutti i paesi, ma girava proprio tutta la notte e dove vedeva delle luci buttava giù i spezzoni, naturalmente qua a Begliano nelle casette avevano buttato e era morta una ragazza di diciotto anni e quello ci ha fatto tanta impressione. Proprio da lì era scaturita questa idea di farci dormire nelle trincee, perché anche durante la notte era pericolo, gli operai che andavano o che venivano a casa avevano i fanali coperti da un pezzo di carta di giornale con un buchino giusto che passava un lumicino di luce per poter, e anche queste qua, questi fatti naturalmente comportava dei pericoli, perché io non so come riuscivano a individuare delle piccole luci da mille metri non so appunto, viaggiava questo apparecchio, questo Pippo. E però faceva paura, guai aprire la finestra, guai aprire la porta, guai fuori perché c’era sempre questo star sul chi va là delle bombe. Altri fatti, non so, da menzionare, così come, non so, l’uccisione per esempio, ma quello forse è un’altra cosa. Avevano ucciso per vendette perché non lo voglio dire perché potrebbe essere interpretato nella maniera sbagliata, però succedeva anche nei paesi. Per esempio, questo lo posso dire, un certo Walter, che era una spia dei nazisti, dei repubblichini che erano quelli dell’esercito del duce dopo l’8 settembre. Quello è stato ucciso in ospedale, cioè gli hanno sparato in ospedale e visto che non era ancora morto l’hanno ucciso, sono andati là i partigiani e l’hanno ucciso e mi sembra di ricordare che hanno ucciso anche sua madre che lo assisteva. Walter, Walter si chiamava. È una cosa che ti faceva non piacere ma era come un senso di giustizia dato che questo Walter, questo famigerato Walter era uno spione e tutti quanti applaudirono a questo fatto perché era come Zorro che difendeva i più deboli e per noi era stato un fatto molto grave.
PC: D’accordo. Silvio, la ringrazio infinitamente, se ha qualche altro.
GSC: Forse ho chiacchierato più del.
PC: No, ma va molto bene. Io la ringrazio della, dell’intervista e grazie di nuovo, anche a nome della Lincoln.
GSC: Non è facile naturalmente, parlare, descrivere con, perché se uno legge qualcosa di preparato è difficile io ritengo.
PC: Andava benissimo.
GSP: Ritengo.
PC: Andava benissimo.
GSC: Io ho questo, ma forse non interessa. Io ho cominciato avere i ricordi della mia vita quando avevo due anni e mezzo. Qua ho cominciato con i primi ricordi, e sono andato avanti descrivendo un po’ quello che succedeva nei paesi, quello che succedeva nella mia famiglia, sono anche storie personali, ma posso tranquillamente vantarmi perché non c’è qualcosa di offensivo per nessuno. Sono arrivato fino al, non è la conclusione perché qua ho messo continua però sono arrivato fino al ’45, concludendo che la guerra aveva provocato 40 milioni di morti. Se lei ha.
PC: Con molto piacere, con molto piacere.
GSC: Un quarto d’ora, venti minuti.
PC: Sicuramente.
GSC: Da leggere.
PC: La ringrazio infinitamente.
GSC: Puo darsi che trovi qualche spunto per continuare il suo lavoro.
PC: Grazie mille.
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Citation
Pietro Commisso, “Interview with Gualtiero Silvio Cosolo,” IBCC Digital Archive, accessed December 2, 2024, https://ibccdigitalarchive.lincoln.ac.uk/omeka/collections/document/452.
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