Interview with Giovanni Delfino
Title
Interview with Giovanni Delfino
Description
Giovanni Delfino was first evacuated to the Cremona area, where he could see the glow of the distant bombings. He then came back to Milan, only to witness a bomb nearly missing his house and killing factory workers. He describes the gruesome sight of undertakers picking up maimed bodies and scattered humans remains: the scene was so shocking that he avoided meat for a while. He recalls wartime episodes: being hurled into a cellar by the blast wave and landing on a pile of sand; stealing pumpkins from a nearby plot and covertly baking them in a ruined house oven; searching for stamps in a bomb crater; the public execution of the actors Osvaldo Valenti and Luisa Ferida; an act of kindness of a German soldier and post-war revenges. He retells his father’s wartime experiences as Resistance runner and Alfa Romeo factory worker: slowing down war-related production; manufacturing V-1 parts destined to Germany; a description of the factory shelter. He recounts his uncle’s wartime experience as tank man, mentioning harsh conditions, a gruesome combat episode in North Africa, surviving torpedoing and being picked up by the Royal Navy.
Creator
Date
2017-10-29
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Type
Format
00:41:14 audio recording
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Identifier
ADelfinoG171029
Transcription
ST: L’intervista è condotta per l’International Bomber Command Centre, l’intervistatrice è Sara Troglio, l’intervistato è Giovanni Delfino, e l’intervista ha luogo a casa dell’intervistato in [omitted] a Carate Brianza. Oggi è il 29 Ottobre 2017 e sono le ore 17. Volevo chiederti un po’ della tua vita prima della guerra, dove abitavate, appunto, ciò che ti ricordavi sul tuo quartiere.
GD: Allora, come ha già detto l’intervistatrice, sono Giovanni Delfino, classe 1933, ai tempi del racconto avevo undici anni, undici, dodici anni, perché parliamo del ’44-’45. Precedentemente all’avvenimento devo dire che la mia abitazione, il mio caseggiato era situato in Via Petitti al numero 11, che era una via adiacente alla Via Traiano che confinava con gli stabilimenti Alfa Romeo del Portello, i primi stabilimenti che erano stati fatti a Milano. Fino a quel momento, io la guerra l’avevo diciamo così sentita un po’ da lontano perché i miei genitori avevano provveduto a farmi sfollare nella zona di Cremona da nostri parenti dimodoché io ad un certo momento quando c’era un incursione aerea su Milano li sentivo solamente per sentito dire, oppure quando succedevano di notte da questa distanza che erano circa 60 chilometri, io vedevo i bagliori delle parti delle case incendiate eccetera perché essendo campagna tutta piatta si riusciva a vedere i bagliori da Milano. Caso vuole che ormai considerando che la guerra stava finendo, i miei genitori decisero di ritornare a casa e qui successe il fattaccio, successe il fattaccio perché dunque la mia abitazione, il mio caseggiato era adiacente ad un convento delle suore di clausura di Maria Teresa del Bambin Gesù, circondato da altissimi muraglioni alti, alti, alti, e intorno c’eran tutte, vuoi l’Alfa Romeo, e vuoi piccole aziende e altra campagna cioè prati, più che altro coltivazioni di ortaggi, eccetera eccetera. Dico questo perché una particolarità, tutte le siepi che circondavano queste ortaglie erano diciamo, luogo, diciamo, di ritrovo degli operai di queste ditte, piccole ditte che, finito l’orario di mensa, si mettevano per quei pochi minuti che rimanevano ancora a giocare a carte o a dama all’ombra di queste siepi. Il giorno che sto per raccontare era un giorno, non mi ricordo bene se luglio o agosto, era sul mezzogiorno. Gli operai erano tutti sotto queste siepi a giocare, eccetera eccetera. Io ero appena tornato da, dalla spesa, dall’aver fatto la spesa con mia mamma, che si trovava sull’androne del caseggiato insieme ad altre persone perché sotto c’era un bar, e insieme a un ufficiale dell’aereonautica militare italiana. Io ero lì che guardavo, curiosavo e la, come fanno tutti i bambini, questi operai che giocavano a carte, a dama, eccetera eccetera. A un certo momento, suona il piccolo allarme. Il piccolo allarme, allora c’era il piccolo allarme e il grande allarme. Il piccolo allarme veniva dato quando le squadriglie erano distanti abbastanza da Milano. In quel momento lì invece cosa successe? Successe che, con questo piccolo allarme, l’ufficiale che c’era insieme lì a mia mamma che stava chiacchierando, sentendo il rombo così degli aerei, guardò in alto e già a una certa distanza, essendo anche pratico, insomma, del mestiere [laughs], vide che c’era questa squadriglia altissima, altissima no, di Liberator, dice, famosi Liberator, e il caposquadriglia aveva fatto, aveva iniziato a fare una manovra, diciamo così, di circoscrizione della zona che, a detta dell’ufficiale dell’areonautica, era un segnale per, diciamo, l’inizio del bombardamento. Al che, l’ufficiale gridò subito: ‘Bombardano, bombardano!’, mia madre, immaginare lo spavento, io, come tutti i bambini che quando vengono richiamati dalle proprie madri, no, ci mettono una, due, tre volte prima di decidersi a rispondere, a obbedire, come sentii il grido di mia mamma, partii come un razzo e arrivai di volata, percorsi questi cinquanta, sessanta metri, quelli che potevano essere, arrivai sotto all’androne della casa. In quel momento arrivavano le prime bombe. Lo spostamento d’aria buttò mia madre, l’ufficiale ed io giù per la tromba delle scale, verso i rifugi, che normalmente una volta si chiamavano rifugi ma, insomma, erano quello che erano, erano le cantine, e fortunatamente in fondo alle scale c’era un mucchio di sabbia, che veniva messo per gli incendi, eventualmente spegnere gli incendi, e io ero davanti, dietro c’era mia mamma, l’ufficiale, e giù tutti a capo di collo e io mi infilai con la testa dentro nel mucchio della sabbia, mi ferii la testa, infatti sto facendo vedere ancora la cicatrice all’intervistatrice. E finisce così, frastuono, polvere, e devo dire che a distanza adesso di anni, ragionando adesso dai miei ottantaquattro anni, devo dire, sinceramente, che io non provai grande spavento perché probabilmente la situazione era stata così rapida, traumatica, improvvisa, imprevedibile, eccetera eccetera che non aveva lasciato il tempo di pensarci troppo, giusto? Alla fine, passa, passa il bombardamento, si esce. Spettacolo, allora sì, incominciamo ad avere una sensazione, così, non più di paura perché ormai non c’era più la paura ma di accoramento perché la strada era ormai tappezzata di macerie. Avanti di noi c’era una casa proprio che era sul limite della Alfa Romeo proprio, di quattro piani con, abitata da molti miei amici e ancora una casa di quelle vecchie, fatte di mattoni, non cemento armato, era letteralmente un cumulo di mattoni, un cumulo di macerie con sotto tutte le persone. [pause] Per fortuna la nostra casa, sì, aveva le persiane abbattute, finestre e i vetri rotti eccetera ma era ancora in piedi, non aveva subito danni, qualche scheggia eccetera perché? Faccio una piccola premessa doverosa. A quei tempi gli Alleati sapevano che, per esempio, l’Alfa Romeo aveva adottato per gli stabilimenti, per esempio di Pomigliano d’Arco a Napoli eccetera, il sistema di costruire i reparti sottoterra, per proteggerli dai bombardamenti. E allora loro, i bombardamenti, adottavano un sistema. Anziché usare bombe dirompenti, usavano bombe perforanti, le quali entravano sottoterra, e esplodevano, non alla quota diciamo zero, ma sottoterra. E così fecero anche per questo bombardamento, no. Questo per noi fu una salvezza perché, salvezza con una concomitanza anche di destino perché ad un certo momento, guardando poi la disposizione delle buche delle bombe di questo bombardamento a tappeto, vedemmo che quella bomba che in teoria, in pratica doveva arrivare su casa nostra, si era spostata di circa una cinquantina di metri, forse di più. Era andata a finire in una delle ortaglie. Andando a finire in una delle ortaglie, aveva perforato il terreno, aveva tirato su terra a non finire al punto che al terzo piano della nostra casa, sopra di noi abitava il padrone di casa, che aveva un terrazzo e con la terra che arrivò sul terrazzo riempì i vasi di fiori, non buttò via la terra, questo per dire. E questa è stata una fortuna, perché praticamente non c’è stato spostamento d’aria. Piccola premessa, piccola anzi parentesi, più che premessa, la vicinanza del convento delle suore di clausura di Maria Teresa del Bambin Gesù gridò, ci portò anche a dire, è stato anche un miracolo perché c’aveva protetto. Benissimo, prendiamo tutto per buono, l’importante che non ci era successo niente. Però, questo è un fatto che, mi dispiace quasi dirlo che, perché è un po’ macabro. Voi dovete pensare che le finestre della mia abitazione guardavano proprio su queste ortaglie, dove c’erano le siepi con quegli operai che stavano lavorando, che stavano giocando a carte eccetera eccetera. Non se ne salvò uno perché quella famosa bomba che è arrivata nell’ortaglia, sì, ha salvato la mia casa ma purtroppo non ha salvato gli operai. Bene, io non so per quanti mesi non mangiai più carne, ecco la storia macabra, perché dalle finestre di casa mia ogni tanto si vedeva il carro funebre del comune che andava a rovistare nell’ortaglia, non so cosa facessero però si vedeva che tiravano su delle cose, le mettevano dentro in sacchi di plastica e poi se ne andavano, basta, vi lascio pensare cosa potevano tirare su, senz’altro non carote e patate. E questo insomma è stato la mia esperienza bellica attribuita alle incursioni aeree. E voi dovete pensare, un particolare che può essere così anche di alleggerimento a questo racconto, in una, una dei crateri delle bombe che, essendo un bombardamento a tappeto, praticamente di bombe ne avevano sganciate un bel po’, era proprio vicino a casa nostra, no, e quando ci sono stati gli Alleati, da noi c’era un insediamento della Croce Rossa e allora c’erano degli italo-americani che si erano fatti amici dei miei genitori, venivano da noi a prendere il caffè, erano dei militari di Boston, mi ricordo ancora, no, bravissime, bravissime persone, no, e ovviamente io su suggerimento loro andavo in una delle buche di queste bombe, allora c’era qualche buca era adibita a raccolta di rifiuti diciamo umidi, e questa buca invece era adibita a rifiuti invece cartacei e lì c’era tutta la corrispondenza, le buste della corrispondenza che ricevevano i militari americani, e io, appassionato di filatelia, andavo a raccogliere dentro nella busta, [laughs] nella buca della bomba, andavo a raccogliere queste buste per togliere i francobolli che sono ancora qua nella mia collezione che quando li vedo mi viene un senso di, così di commozione perché a ottantaquattro anni ci si commuove anche per, guardando dei francobolli. Ecco questo per dirvi, questo bombardamento a tappeto cosa aveva prodotto, nel male 90% e nel bene 10% per i francobolli del Gianni Delfino, che sarei io.
SR: Prima mi parlavi di tuo papà e del suo lavoro in Alfa Romeo. Volevo chiederti.
GD: Sì, ecco sì, mio padre, noi abitavamo proprio vicini alla Alfa Romeo perché era abitudine, abitudine, si cercava chi lavorava in questi stabilimenti di metter su casa vicino per essere comodi, per non avere tanta strada da fare così. E mio padre aveva, ha lavorato la bellezza di quarantun’anni in Alfa Romeo, era un capolinea sulle dentatrici Gleason, di modo che io ho sempre mangiato pane e ingranaggi a casa mia, perché il suo da fare è raccontare, io ero figlio unico, era raccontare, a lui piaceva molto mettere al corrente, metterci al corrente di quello che succedeva sui posti di lavoro, sulle evoluzioni tecniche della costruzione degli ingranaggi eccetera eccetera, che, considerando che erano in Alfa Romeo, erano di altissima qualità perché sappiamo che l’Alfa Romeo allora insomma era una delle prime ditte italiane in fatto di costruzioni di automobili.
ST: E vi parlava anche della vita in fabbrica magari come succedevano, cosa succedeva durante i bombardamenti lì o episodi di resistenza?
GD: No, [unclear], se, ecco, quando avevano sentore di qualche allarme, sulla Via Renato Serra che era una via proprio che tagliava in due praticamente lo stabilimento dell’Alfa Romeo, avevano costruito degli enormi rifugi antiaerei di cemento armato, saran stati, avranno avuto minimo minimo un venti metri di diametro, dentro c’era tutta una, chiamiamo una scala a chiocciola, dove gli operai entravano, e poi man mano, tu, tu, tu, tuck, si sistemavano tutti seduti su questa scala a chiocciola eccetera; questi rifugi erano fatti anche con una punta conica, con una punta d’acciaio, proprio la cuspide in acciaio per fare in modo che se arrivasse, arrivava qualche bomba eccetera, era portata a scivolare via, insomma, non poteva dare l’impatto su questa. E questo è uno delle caratteristiche diciamo che mi ricordo. Poi, tu cosa, cosa mi chiedeva lei, scusi?
ST: Ti chiedevo se appunto lui magari parlava di, come reagivano gli operai durante i bombardamenti.
GD: Ah, niente, no, guardi, ormai c’era un’assuefazione tale che a un certo momento niente, non dico che quando c’era il bombardamento ‘oh che bellezza, così non lavoriamo!’, però insomma non è che si, oddio, gli operai la preoccupazione erano per i familiari a casa perché loro si sentivano superprotetti in questi bunker no, però purtroppo, come abbiamo visto, se ci fosse stato un operaio che aveva dei parenti nella casa di fianco alla mia, eh, vi lascio ben immaginare quale poteva essere stato il suo stato d’animo alla sera quando sarebbe uscito dal suo rifugio e fosse andato a casa sua ecco. Questo non, eh, niente.
ST: E i tuoi genitori parlavano della guerra o del regime, si scambiavano opinioni politiche quando erano in casa, anche davanti a te?
GD: Sì, sì, sì, sì, non è che si, cioè per quanto potessi capire io a dodici anni però a un certo momento qualcosa capivo anche perché posso dire perché tanto non è un segreto, mio padre non era di idee di regime. [background noise] Diciamo, sei possiamo dire all’opposto, abbiamo detto tutto. E a tal riguardo io potrei, mi piacerebbe raccontare un fatto molto, molto significativo, che elude da quello che è i bombardamenti, l’incursione aerea così, però è un fatto umano molto interessante. Il reparto di mio padre era decentrato a Usmate, un paese qui nella periferia di Milano. Mio padre così, forse, così, godeva di grande stima da ambo le parti, dalla direzione che senz’altro politicamente non la pensava come lui, dagli operai che politicamente qualcuno anche pensava come lui, e da, diciamo dei gruppi, diciamo partigiani, ecco, diciamo il termine giusto come deve essere, anche perché mio padre faceva parte della Brigata Garbialdi, parliamo chiaro, Garibaldi prima civile, non armata non, però questo cosa gli faceva fare? Voi pensate, quando era il giorno di paga, mio padre prendeva la bicicletta, mettevano le paghe in una borsa di cuoio normale che veniva messa a cavallo della canna della bicicletta, come si fa quando si mette dentro la merenda, oppure la colazione eccetera, e lui partiva lemme, lemme da Milano, prendeva la Gallaratese, trac andava verso Usmate eccetera eccetera a portare le paghe. Voi dovete pensare che, strada facendo, spesso e volentieri incontrava partigiani, che saltavano fuori un po’ da tutte le parti. Non l’hanno mai fermato una volta. Primo, perché sapevano chi era, poi perché, onestamente, erano partigiani onesti. Perché uso la parola onesti? Perché dobbiamo essere consapevoli che, a quei tempi, l’onestà non è che era una bandiera che tutti sventolavano; l’onestà era un piccolo vessillo privato che ognuno, alle volte cercava quasi di tenere di nascosto, per non farsi vedere troppo onesto. E allora probabilmente lui ha avuto la fortuna di incontrare sempre queste persone che, conoscendolo ed essendo onesti, non l’hanno mai fermato e non gli hanno mai portato via una lira. Lui arrivava sempre sul posto e portava le paghe agli operai di Usmate. Questo è un fatto molto molto importante e significativo perché purtroppo si sentono tanti racconti non belli di persone che approfittavano della loro idea politica e del loro grado, soprattutto idea politica, per fare anche nefandezze. A me piacerebbe, se è consentito, poi casomai sarà l’intervistatrice che taglierà, perché ad un certo momento io in questa intervista avevo fatto una riflessione, ero stato preparato dalla signorina Troglio, perché io, in mezzo a queste cose qui, così tragiche, volevo dire due cose significative, molto molto belle, che io devo cercare di non farmi prendere dalla commozione, intanto che le racconterò. Allora, noi avevamo undici dodici anni. Non è che si patisse la fame però ci si arrangiava come ragazzi a, insomma, a cercare dove, noi per esempio andavamo in queste ortaglie, che dicevo, a prendere, a rubare, a prendere le zucche, poi a fette le portavamo in questa casa di quattro piani, cumulo di macerie che vi ho descritto, c’era un fornaio e noi le portavamo quando il forno era spento però ancora caldo, portavamo le fette di zucca verso le tre, quattro del pomeriggio e poi le andavamo a prendere alle sette, alle otto, perché erano belle cotte e ce le mangiavamo. Ecco, questo per dire un particolare ma questo qui è un particolare ameno. Ma invece quello che ho detto che mi dà commozione ancora è questo. In Viale Certosa c’era tutto il filiare di platani. Ora, a un certo momento il comando tedesco aveva dato ordine di abbattere il platani, probabilmente non era, era per una questione di approvvigionamento di legna da ardere perché chiunque vi insegna che se c’è un filare di alberi e ci sono dei mezzi militari ci tengono a non abbatterli perché essendo nascosti dietro gli alberi gli aerei non li vedono. Perciò sarebbe stato assurdo un bel viale alberato, andare ad abbattere gli alberi quando, però abbiamo capito che era perché anche loro poveretti insoma c’avevano bisogno di legna da ardere. Bene. Particolare bellissimo, bellissimo, cioè noi arriviamo davanti a questo albero, noi siamo in due o tre amici che siamo lì a guardare abbattere l’albero con le borse della spesa in mano. C’è un tedesco con l’ascia che sta abbattendo l’albero. Ovviamente saltano via le schegge di legno, noi ragazzi raccogliavamo le schegge di legno per portarle a casa e accendere la stufa. Questo giovane tedesco, soldato tedesco, me lo ricordo ancora, faceva apposta a far fatica a fare le schegge più grosse per far in modo che noi, anziché le schegge piccole avessimo dei pezzi di legno più grossi da portar via, questa è una cosa che io, mentre la sto dicendo, mi sto commovendo, perché è una cosa che, niente, con questo io non sto difendendo il soldato tedesco tout court. No, per l’amor del cielo, eh, lungi da me, niente, sto riferendo un fatto mio personale che è molto, molto, molto importante. E il secondo fatto, e io ho già detto che nella mia famiglia, avete già capito le idee politiche quali potevano essere, però in quel momento, noi dobbiamo ricordare che negli anni ’40 eccetera, si era tutti infollarmati [sic], si era molto tutti, io ero un figlio della lupa, dico la verità, avevo la mia divisina anch’io, no, eccetera, e io mi ricorderò sempre un altro fatto importantissimo. Di fianco a noi, di fianco a questo convento delle suore c’era anche e c’è ancora un, diciamo, un ricovero eccetera, un’opera, dove erano ricoverati gli orfani, degli orfanelli, erano gli orfani di Padre Beccaro, esiste ancora eccetera. , Benissimo, a un certo momento c’era la scritta sopra, c’era scritto, ‘Opera derelitti di Padre Beccaro’. Derelitti è una parola italiana normale che vuol dire ‘abbandonati’, non è un’offesa, no? Bene. A un certo momento, arriva il Duce, arriva il Duce, tutto il rione in subbuglio, tutte, non tanto gli uomini perché erano al lavoro ma tutte le donne coi figli: ‘Arriva il Duce andiamo a vedere cosa farà questo Duce!’. Io me lo ricordo ancora adesso, come mi ricordo il tedesco là che faceva, io me lo ricordo ancora arrampicato su una scala, mia moglie, mia mamma eccetera, con le lacrime agli occhi insieme ad altri, io no perché io non capivo, perché io avrò avuto sei, sette anni, otto anni, quello che è, e avevano preparato, solo la parola, la parola ‘derelitti’ era stata tutta inbiancata. E lui, me lo ricordo, io chiudo gli occhi, me lo vedo ancora sulla scala, col pennello di vernice nera, che ha scritto ‘piccoli’, ‘Opera piccoli di Padre Beccaro’, ancora adesso se andate a vedere, c’è scritto ‘opera piccoli’ adesso fatta bene ovvio, aveva fatto togliere la parola ‘derelitti’ perché non voleva, ecco. Parliamo chiaro, è propaganda, cioè non sto dicendo che in quel momento lì il Duce si è svegliato una mattina e preso da un rimorso, ‘oh, io devo andare’, no, quello no, propaganda eccetera, però sono quelle cose che, cioè riflettendo adesso, dico ma, pensate un pochettino cosa può fare un regime per riuscire a imbonirsi eccetera, le persone. Oh, lì c’era una massa di donne che piangevano perché vedevano il Duce che stava scrivendo la parola ‘piccoli’ e infatti bisogna dire, è un fatto che non è riprovevole, anche encominabile perché insomma uno che tira via la parola ‘derelitti’ e ci mette ‘piccoli’, insomma tanto di cappello, giusto? Se l’avesse fatto un prete, sarebbe stata la stessa cosa. Ecco questo è il secondo fatto, diciamo così ameno, leggero che volevo mettere insieme al bombardamento.
ST: Ma, volevo chiederti, a scuola, com’era la vita a scuola durante la guerra, se avevano parlato di bombardamenti o vi parlavano della guerra in corso.
GD: No, dunque, allora devi pensare questo, io premesso, io un certo momento, nonostante le idee eccetera però si era presi dentro in un canale, io ero un figlio della lupa, avevo la mia bella divisina, ci tenevo a andare alla Scuola Pietro Micca di Via Gattamelata a fare le mie riunioni eccetera tutto così eccetera e non sono mai diventato Balilla perché siccome sono sfollato di modo ché non ho fatto in tempo. Io la terza, la quarta, la quinta l’ho fatta a Castelleone in quel di Cremona, perciò a un certo momento là per me la guerra non esisteva più, il fascio non esisteva più, cioè, ero ben lontano là, vivevo in mezzo ai campi contadini, per me insomma ormai, per me la vita era con le mucche, i tori, i cavalli eccetera eccetera, no, ecco. E perciò direi che mah, sì, io a un certo momento, più che la guerra in sé stesso, eccetera eccetera, ricordo due o tre fatti, proprio rapidissimi, così, per esempio, i fascisti scappano da Milano, c’erano i giovani della X Mas eccetera, eccetera, che mi ricordo che passavano da Viale Certosa, quel viale dove avevano abbattuto gli alberi e, io dico adesso alla mia età, con una paura addosso, perché chissà che paura avevano, erano, passavano coi camion, e sparavano sulle finestre perché non volevano che la gente si affacciasse a vedere che loro stavano scappando. Questo me lo ricordo perché casa mia, praticamente, Via Petitti è all’inizio era dopo c’era Viale Certosa perciò io da casa mia vedevo le case di Viale Certosa e quando sono passati sentendo il crepitio delle armi mi avevano detto ’Sì, sono i giovincelli del fascio che stanno sparando sulle finestre, perché probabilmente si vergognano per vedere che stavano scappando’. E invece l’altro fatto, l’altro fatto invece increscioso che mi ricordo, mi ricordo quello l’ho visto io,l’ho visto non visto fare ma visto dopo, quando hanno incominciato a fare le epurazioni che in Via Poliziano hanno preso la Ferida e Osvaldo Valenti, che erano i due attori, e a un certo momento li hanno fucilati lì sul marciapiede. Quella è stata una cosa che, ecco, io ricordo più, diciamo mi ha fatto più effetto il dopoguerra che la guerra, perché il dopoguerra per esempio c’era l’ingegner, faccio un nome, l’ingegner Gobbato. L’ingegnier Gobbato è un ingegnere dell’Alfa Romeo, bravissima persona, detto da mio padre, guardi, una cosa eccetera, ma era fascista, perché per forza, là tutti da un certo grado in sù, dai capi in sù dovevano essere per forza iscritti al fascio, perché altrimenti vivevano male, no? E a un certo momento si vede che qualcuno ce l’aveva su, dopo l’epurazione, a un certo momento l’hanno trovato in mezzo alla neve, fuori dell’Alfa Romeo, ammazzato eccetera, no? Ecco lì sono cose che si ricordano, si ricordano molto, molto, molto, molto, per far capire un pochetto cosa vuol dire cosa sono le, come si può dire, le vendette personali. E io posso dire che sotto di noi abitava un fascista. A un certo momento è stato preso e portato a San Vittore. Era una brava persona. Dopo un po’ di giorni è tornato a casa. Questo per dire che non era tanto perché uno avesse l’iscrizione al fascio o non al fascio, tutto dipendeva dall’indole della persona, una persona poteva essere malvagia o persona buona, e persona, e questo sono i vari ricordi. Oddio, questa è un’intervista che è partita con un tema ben preciso e cioè incursioni aeree eccetera eccetera, la RAF minga la RAF eccetera eccetera. Niente, potremmo farla un’altra, io ho aggiunto qualche particolare, potrei aggiungere altri particolari interessanti di vita bellica però su un altro tema, cioè il tema: vita bellica di un ragazzo eccetera eccetera. Si potrà fare un domani eccetera perché ci sono dei.
ST: Se vuoi anche ora.
GD: Degli altri, degli altri, ci sono degli altri avvenimenti importanti, per esempio, uno devo dirlo, devo dirlo perché.
ST: Racconta pure tutto quello che vuoi.
GD: E’ più forte di me. Allora, mio zio, anzi se la qui presente eccetera vuole anche con il telefonino filmare, riprendere un attimino quello che sto dicendo eccetera eccetera, mio zio era carrista sui carri armati M11 e diciamo zona di El Alamein, tanto per intenderci, carri armati M11 erano carri armati. L’M, avevano l’arma in torretta, poi furono trasformati in M13 con l’arma nello scafo, cioè praticamente fissa nello scafo, non nella torretta. Ovviamente con i carri armati inglesi bastava un colpo ben assestato che partiva via tutto, erano degli scatolini e io devo dire che mio zio era carrista, lui era capocarro a parte che a capocarro lì erano dentro in due o tre mi sembra, non è che come adesso sono dentro in cinque sei. E in una battaglia, mi ricorderò sempre, mi disse, stavano andando, a un certo momento colpiti da altri carri, a un certo momento un colpo tremendo, deve immaginare il frastuono tremendo eccetera eccetera tutto, a un certo momento, lui, il cannoniere era sopra di lui, lui era nello scafo, il cannoniere, e lui a un certo momento [screams] a cominciato a gridare, prende la gamba del cannoniere e gli dice, uè te, lo chiama per nome, cosa è successo, e gli è rimasto in mano la gamba. Praticamente il colpo aveva portato via la torretta, il cannoncino e mezzo cannoniere. Questo è stato il trauma di mio, al punto che mio zio è saltato fuori dal carro, si è spogliato, si è messo in mutande, si è messo con le mani alzate, e ha sperato che non ci fosse nessuno che lo colpisse. È stato fatto prigioniero. Ecco, questo non è per vigliaccheria, questo per dire come ci si trova. È stato fatto prigioniero, portato in Africa, bla, bla, bla, bla, tutto eccetera eccetera eccetera, rimpatriato, ehm, parte la nave, siluro, tutti mezzi morti, mio zio fortunamente aveva il mal di mare, era andato in coperta e si era addormentato su un rotolo di corde, giusto, e questo l’ha salvato perché è stato buttato a mare, è stato la bellezza di dodici ore a bagnomaria in acqua e poi è stato salvato dagli inglesi. Portato ancora in campo di concentramento, in Africa così, faceva il cuoco, stava benissimo, eccetera, eccetera. Precedentemente, voi dovete pensare che, per la sete, arrivavano a bere l’acqua dei radiatori del carro armato. Non gliene fregava niente se il carro armato poi si fermava, piuttosto che morire di sete bevevano l’acqua. E infatti mio zio poi dopo reduce a casa così, quando è deceduto, è deceduto anche perché aveva lo stomaco un po’. Ma il fatto invece bellissimo, bellissimo, uguale a uno di quelli che mi ricordo, è: io sono sfollato a Castelleone, ritorna mio zio reduce dalla prigionia, siamo in questo paese, la prima cosa che fece, mi ricordo guardi anche, me lo sento adesso, mi prende, mi porta fuori in campagna, c’era una roggia che si chiamava la Seriola, si chiama la Seriola, è un affluente del fiume Serio che incrocia sopra la Seriola, ci sono dei canali in cemento per portare l’acqua, eh cosa fanno, mica possono, allora facevano i canali, fanno i canali in cemento. E c’era uno di questi canali in cemento con dentro l’acqua corrente che se la Seriola era non so a diciotto gradi, lì l’acqua sarà stata a dodici gradi, forse a dieci. La soddisfazione di questa persona, reduce, arriva a casa, saluta i parenti, la prima cosa che fa, prende il Gianni, che ero io, andiamo in campagna, andiamo alla Seriola, ci spogliamo e in mutande dentro a bagnomaria nella corrente, a sentire quest’acqua fresca, fresca, freddissima, gelata. Io a un certo momento seguivo lo zio, e, cioè vabbè, non è che, mi piaceva, mi piaceva il fatto, non tanto perché io sentivo freddo ma io mi ricordo la soddisfazione di questo uomo a essere al suo paese, vivo, e immerso nell’acqua gelida, bella corrente, che avrà sognato non so per quanti anni, per quanti anni, per quanti anni. Bellissimo, bellissimo, sono dei fatti questi che sono, sono indimenticabili, indimenticabili, indimenticabili. E io torno a dire, la mia memoria ormai è quella che è: non mi ricordo quasi cosa ho mangiato a mezzogiorno, però questi fatti qui sono indelebili nella mia mente e mi fa tanto, tanto, tanto piacere perché io, come tutti i vecchi, chissà quante volte le ho già raccontate a Tizio, Caio, Sempronio, magari annoiandoli anche, mi fa piacere che questa volta così ho potuto lasciarli a una persona che magari ne può far tesoro, insieme ad altre testimonianze.
ST: Volevo farti un’ultimissima domanda.
GD: Sì. Dica.
ST: MI parlavi appunto dell’attivitò partigina di tuo papà. Lui in fabbrica era sabotatore quindi? Cosa?
GD: Sì, ah allora, [laughs], a un certo momento, dovete pensare anche questo: quando si parla di sabotaggio, sabotaggio non vuol dire mettere un ordigno esplosivo, far saltar per aria qualcosa eccetera. Sabotaggio c’è anche il sabotaggio intelligente. Il sabotaggio intelligente, che è molto pericoloso perché può essere frainteso come un finto sabotaggio. Cioè, lui essendo un capolinea perciò a un certo momento aveva anche una responsabilità verso gli operai, doveva stare attento anche che gli operai non facessero delle cavolate di loro iniziativa, però loro a un certo momento, se c’era, a un certo momento avevano capito che c’erano dei pezzi che facevano, che non c’entravano niente coi motori Alfa Romeo, erano dei pezzi che venivano fatti poi incellofanati tutti, oliati, eccetera, erano pezzi di V1, venivano mandati in Germania. E mi ricordo perché me ne portò a casa anche qualche dopo la guerra erano rimasti in magazzino, e mi diceva: ‘vedi, questi qui sono pezzi che facevamo per lavoro’, in modo che potete immaginare il controllo dei tedeschi come era, [makes a rhythmic noise], com’era pressante, no, eccetera, in modo che bisognava stare attenti di, se c’era da fare mille pezzi, cercare di farne ottocento, non cento, però ottocento, insomma duecento meno. Per fare questo, le macchine dovevano andare non troppo bene, però non potevano essere manomesse col dire ‘Ah io faccio bruciare il motore elettrico, la macchina non va più!’. No, deve essere sempre il solito bullone semisvitato, il solito dado che manca, il solito filo che si è spelato e ha fatto un po’, e non fa più contatto ma basta riagganciarlo e la macchina riparte, però intanto si perdono le ore, eccetera eccetera, ecco questo era stato fatto, questo mi raccontava che loro sabotaggio ne facevano, però era un sabotaggio, infatti non c’è mai stato in Alfa Romeo una rappresaglia e che erano curati perché, dovete pensare che uno degli azionisti dell’Alfa Romeo era Benito Mussolini, figuriamoci no. Eh, e questo è quello che mi raccontava dei sabotaggi che facevano quando si erano accorti che facevano i pezzi per la V1. E io li ho visti, bellissimi, tutti incartati in carta cellofan, tutto oliato, tutto per bene in scatolette, tutti, sì. Questo, ecco l’unica cosa di sabotaggio che posso dire è questo, altro non saprei. Abbiamo finito? Finito? Alla prossima puntata.
GD: Allora, come ha già detto l’intervistatrice, sono Giovanni Delfino, classe 1933, ai tempi del racconto avevo undici anni, undici, dodici anni, perché parliamo del ’44-’45. Precedentemente all’avvenimento devo dire che la mia abitazione, il mio caseggiato era situato in Via Petitti al numero 11, che era una via adiacente alla Via Traiano che confinava con gli stabilimenti Alfa Romeo del Portello, i primi stabilimenti che erano stati fatti a Milano. Fino a quel momento, io la guerra l’avevo diciamo così sentita un po’ da lontano perché i miei genitori avevano provveduto a farmi sfollare nella zona di Cremona da nostri parenti dimodoché io ad un certo momento quando c’era un incursione aerea su Milano li sentivo solamente per sentito dire, oppure quando succedevano di notte da questa distanza che erano circa 60 chilometri, io vedevo i bagliori delle parti delle case incendiate eccetera perché essendo campagna tutta piatta si riusciva a vedere i bagliori da Milano. Caso vuole che ormai considerando che la guerra stava finendo, i miei genitori decisero di ritornare a casa e qui successe il fattaccio, successe il fattaccio perché dunque la mia abitazione, il mio caseggiato era adiacente ad un convento delle suore di clausura di Maria Teresa del Bambin Gesù, circondato da altissimi muraglioni alti, alti, alti, e intorno c’eran tutte, vuoi l’Alfa Romeo, e vuoi piccole aziende e altra campagna cioè prati, più che altro coltivazioni di ortaggi, eccetera eccetera. Dico questo perché una particolarità, tutte le siepi che circondavano queste ortaglie erano diciamo, luogo, diciamo, di ritrovo degli operai di queste ditte, piccole ditte che, finito l’orario di mensa, si mettevano per quei pochi minuti che rimanevano ancora a giocare a carte o a dama all’ombra di queste siepi. Il giorno che sto per raccontare era un giorno, non mi ricordo bene se luglio o agosto, era sul mezzogiorno. Gli operai erano tutti sotto queste siepi a giocare, eccetera eccetera. Io ero appena tornato da, dalla spesa, dall’aver fatto la spesa con mia mamma, che si trovava sull’androne del caseggiato insieme ad altre persone perché sotto c’era un bar, e insieme a un ufficiale dell’aereonautica militare italiana. Io ero lì che guardavo, curiosavo e la, come fanno tutti i bambini, questi operai che giocavano a carte, a dama, eccetera eccetera. A un certo momento, suona il piccolo allarme. Il piccolo allarme, allora c’era il piccolo allarme e il grande allarme. Il piccolo allarme veniva dato quando le squadriglie erano distanti abbastanza da Milano. In quel momento lì invece cosa successe? Successe che, con questo piccolo allarme, l’ufficiale che c’era insieme lì a mia mamma che stava chiacchierando, sentendo il rombo così degli aerei, guardò in alto e già a una certa distanza, essendo anche pratico, insomma, del mestiere [laughs], vide che c’era questa squadriglia altissima, altissima no, di Liberator, dice, famosi Liberator, e il caposquadriglia aveva fatto, aveva iniziato a fare una manovra, diciamo così, di circoscrizione della zona che, a detta dell’ufficiale dell’areonautica, era un segnale per, diciamo, l’inizio del bombardamento. Al che, l’ufficiale gridò subito: ‘Bombardano, bombardano!’, mia madre, immaginare lo spavento, io, come tutti i bambini che quando vengono richiamati dalle proprie madri, no, ci mettono una, due, tre volte prima di decidersi a rispondere, a obbedire, come sentii il grido di mia mamma, partii come un razzo e arrivai di volata, percorsi questi cinquanta, sessanta metri, quelli che potevano essere, arrivai sotto all’androne della casa. In quel momento arrivavano le prime bombe. Lo spostamento d’aria buttò mia madre, l’ufficiale ed io giù per la tromba delle scale, verso i rifugi, che normalmente una volta si chiamavano rifugi ma, insomma, erano quello che erano, erano le cantine, e fortunatamente in fondo alle scale c’era un mucchio di sabbia, che veniva messo per gli incendi, eventualmente spegnere gli incendi, e io ero davanti, dietro c’era mia mamma, l’ufficiale, e giù tutti a capo di collo e io mi infilai con la testa dentro nel mucchio della sabbia, mi ferii la testa, infatti sto facendo vedere ancora la cicatrice all’intervistatrice. E finisce così, frastuono, polvere, e devo dire che a distanza adesso di anni, ragionando adesso dai miei ottantaquattro anni, devo dire, sinceramente, che io non provai grande spavento perché probabilmente la situazione era stata così rapida, traumatica, improvvisa, imprevedibile, eccetera eccetera che non aveva lasciato il tempo di pensarci troppo, giusto? Alla fine, passa, passa il bombardamento, si esce. Spettacolo, allora sì, incominciamo ad avere una sensazione, così, non più di paura perché ormai non c’era più la paura ma di accoramento perché la strada era ormai tappezzata di macerie. Avanti di noi c’era una casa proprio che era sul limite della Alfa Romeo proprio, di quattro piani con, abitata da molti miei amici e ancora una casa di quelle vecchie, fatte di mattoni, non cemento armato, era letteralmente un cumulo di mattoni, un cumulo di macerie con sotto tutte le persone. [pause] Per fortuna la nostra casa, sì, aveva le persiane abbattute, finestre e i vetri rotti eccetera ma era ancora in piedi, non aveva subito danni, qualche scheggia eccetera perché? Faccio una piccola premessa doverosa. A quei tempi gli Alleati sapevano che, per esempio, l’Alfa Romeo aveva adottato per gli stabilimenti, per esempio di Pomigliano d’Arco a Napoli eccetera, il sistema di costruire i reparti sottoterra, per proteggerli dai bombardamenti. E allora loro, i bombardamenti, adottavano un sistema. Anziché usare bombe dirompenti, usavano bombe perforanti, le quali entravano sottoterra, e esplodevano, non alla quota diciamo zero, ma sottoterra. E così fecero anche per questo bombardamento, no. Questo per noi fu una salvezza perché, salvezza con una concomitanza anche di destino perché ad un certo momento, guardando poi la disposizione delle buche delle bombe di questo bombardamento a tappeto, vedemmo che quella bomba che in teoria, in pratica doveva arrivare su casa nostra, si era spostata di circa una cinquantina di metri, forse di più. Era andata a finire in una delle ortaglie. Andando a finire in una delle ortaglie, aveva perforato il terreno, aveva tirato su terra a non finire al punto che al terzo piano della nostra casa, sopra di noi abitava il padrone di casa, che aveva un terrazzo e con la terra che arrivò sul terrazzo riempì i vasi di fiori, non buttò via la terra, questo per dire. E questa è stata una fortuna, perché praticamente non c’è stato spostamento d’aria. Piccola premessa, piccola anzi parentesi, più che premessa, la vicinanza del convento delle suore di clausura di Maria Teresa del Bambin Gesù gridò, ci portò anche a dire, è stato anche un miracolo perché c’aveva protetto. Benissimo, prendiamo tutto per buono, l’importante che non ci era successo niente. Però, questo è un fatto che, mi dispiace quasi dirlo che, perché è un po’ macabro. Voi dovete pensare che le finestre della mia abitazione guardavano proprio su queste ortaglie, dove c’erano le siepi con quegli operai che stavano lavorando, che stavano giocando a carte eccetera eccetera. Non se ne salvò uno perché quella famosa bomba che è arrivata nell’ortaglia, sì, ha salvato la mia casa ma purtroppo non ha salvato gli operai. Bene, io non so per quanti mesi non mangiai più carne, ecco la storia macabra, perché dalle finestre di casa mia ogni tanto si vedeva il carro funebre del comune che andava a rovistare nell’ortaglia, non so cosa facessero però si vedeva che tiravano su delle cose, le mettevano dentro in sacchi di plastica e poi se ne andavano, basta, vi lascio pensare cosa potevano tirare su, senz’altro non carote e patate. E questo insomma è stato la mia esperienza bellica attribuita alle incursioni aeree. E voi dovete pensare, un particolare che può essere così anche di alleggerimento a questo racconto, in una, una dei crateri delle bombe che, essendo un bombardamento a tappeto, praticamente di bombe ne avevano sganciate un bel po’, era proprio vicino a casa nostra, no, e quando ci sono stati gli Alleati, da noi c’era un insediamento della Croce Rossa e allora c’erano degli italo-americani che si erano fatti amici dei miei genitori, venivano da noi a prendere il caffè, erano dei militari di Boston, mi ricordo ancora, no, bravissime, bravissime persone, no, e ovviamente io su suggerimento loro andavo in una delle buche di queste bombe, allora c’era qualche buca era adibita a raccolta di rifiuti diciamo umidi, e questa buca invece era adibita a rifiuti invece cartacei e lì c’era tutta la corrispondenza, le buste della corrispondenza che ricevevano i militari americani, e io, appassionato di filatelia, andavo a raccogliere dentro nella busta, [laughs] nella buca della bomba, andavo a raccogliere queste buste per togliere i francobolli che sono ancora qua nella mia collezione che quando li vedo mi viene un senso di, così di commozione perché a ottantaquattro anni ci si commuove anche per, guardando dei francobolli. Ecco questo per dirvi, questo bombardamento a tappeto cosa aveva prodotto, nel male 90% e nel bene 10% per i francobolli del Gianni Delfino, che sarei io.
SR: Prima mi parlavi di tuo papà e del suo lavoro in Alfa Romeo. Volevo chiederti.
GD: Sì, ecco sì, mio padre, noi abitavamo proprio vicini alla Alfa Romeo perché era abitudine, abitudine, si cercava chi lavorava in questi stabilimenti di metter su casa vicino per essere comodi, per non avere tanta strada da fare così. E mio padre aveva, ha lavorato la bellezza di quarantun’anni in Alfa Romeo, era un capolinea sulle dentatrici Gleason, di modo che io ho sempre mangiato pane e ingranaggi a casa mia, perché il suo da fare è raccontare, io ero figlio unico, era raccontare, a lui piaceva molto mettere al corrente, metterci al corrente di quello che succedeva sui posti di lavoro, sulle evoluzioni tecniche della costruzione degli ingranaggi eccetera eccetera, che, considerando che erano in Alfa Romeo, erano di altissima qualità perché sappiamo che l’Alfa Romeo allora insomma era una delle prime ditte italiane in fatto di costruzioni di automobili.
ST: E vi parlava anche della vita in fabbrica magari come succedevano, cosa succedeva durante i bombardamenti lì o episodi di resistenza?
GD: No, [unclear], se, ecco, quando avevano sentore di qualche allarme, sulla Via Renato Serra che era una via proprio che tagliava in due praticamente lo stabilimento dell’Alfa Romeo, avevano costruito degli enormi rifugi antiaerei di cemento armato, saran stati, avranno avuto minimo minimo un venti metri di diametro, dentro c’era tutta una, chiamiamo una scala a chiocciola, dove gli operai entravano, e poi man mano, tu, tu, tu, tuck, si sistemavano tutti seduti su questa scala a chiocciola eccetera; questi rifugi erano fatti anche con una punta conica, con una punta d’acciaio, proprio la cuspide in acciaio per fare in modo che se arrivasse, arrivava qualche bomba eccetera, era portata a scivolare via, insomma, non poteva dare l’impatto su questa. E questo è uno delle caratteristiche diciamo che mi ricordo. Poi, tu cosa, cosa mi chiedeva lei, scusi?
ST: Ti chiedevo se appunto lui magari parlava di, come reagivano gli operai durante i bombardamenti.
GD: Ah, niente, no, guardi, ormai c’era un’assuefazione tale che a un certo momento niente, non dico che quando c’era il bombardamento ‘oh che bellezza, così non lavoriamo!’, però insomma non è che si, oddio, gli operai la preoccupazione erano per i familiari a casa perché loro si sentivano superprotetti in questi bunker no, però purtroppo, come abbiamo visto, se ci fosse stato un operaio che aveva dei parenti nella casa di fianco alla mia, eh, vi lascio ben immaginare quale poteva essere stato il suo stato d’animo alla sera quando sarebbe uscito dal suo rifugio e fosse andato a casa sua ecco. Questo non, eh, niente.
ST: E i tuoi genitori parlavano della guerra o del regime, si scambiavano opinioni politiche quando erano in casa, anche davanti a te?
GD: Sì, sì, sì, sì, non è che si, cioè per quanto potessi capire io a dodici anni però a un certo momento qualcosa capivo anche perché posso dire perché tanto non è un segreto, mio padre non era di idee di regime. [background noise] Diciamo, sei possiamo dire all’opposto, abbiamo detto tutto. E a tal riguardo io potrei, mi piacerebbe raccontare un fatto molto, molto significativo, che elude da quello che è i bombardamenti, l’incursione aerea così, però è un fatto umano molto interessante. Il reparto di mio padre era decentrato a Usmate, un paese qui nella periferia di Milano. Mio padre così, forse, così, godeva di grande stima da ambo le parti, dalla direzione che senz’altro politicamente non la pensava come lui, dagli operai che politicamente qualcuno anche pensava come lui, e da, diciamo dei gruppi, diciamo partigiani, ecco, diciamo il termine giusto come deve essere, anche perché mio padre faceva parte della Brigata Garbialdi, parliamo chiaro, Garibaldi prima civile, non armata non, però questo cosa gli faceva fare? Voi pensate, quando era il giorno di paga, mio padre prendeva la bicicletta, mettevano le paghe in una borsa di cuoio normale che veniva messa a cavallo della canna della bicicletta, come si fa quando si mette dentro la merenda, oppure la colazione eccetera, e lui partiva lemme, lemme da Milano, prendeva la Gallaratese, trac andava verso Usmate eccetera eccetera a portare le paghe. Voi dovete pensare che, strada facendo, spesso e volentieri incontrava partigiani, che saltavano fuori un po’ da tutte le parti. Non l’hanno mai fermato una volta. Primo, perché sapevano chi era, poi perché, onestamente, erano partigiani onesti. Perché uso la parola onesti? Perché dobbiamo essere consapevoli che, a quei tempi, l’onestà non è che era una bandiera che tutti sventolavano; l’onestà era un piccolo vessillo privato che ognuno, alle volte cercava quasi di tenere di nascosto, per non farsi vedere troppo onesto. E allora probabilmente lui ha avuto la fortuna di incontrare sempre queste persone che, conoscendolo ed essendo onesti, non l’hanno mai fermato e non gli hanno mai portato via una lira. Lui arrivava sempre sul posto e portava le paghe agli operai di Usmate. Questo è un fatto molto molto importante e significativo perché purtroppo si sentono tanti racconti non belli di persone che approfittavano della loro idea politica e del loro grado, soprattutto idea politica, per fare anche nefandezze. A me piacerebbe, se è consentito, poi casomai sarà l’intervistatrice che taglierà, perché ad un certo momento io in questa intervista avevo fatto una riflessione, ero stato preparato dalla signorina Troglio, perché io, in mezzo a queste cose qui, così tragiche, volevo dire due cose significative, molto molto belle, che io devo cercare di non farmi prendere dalla commozione, intanto che le racconterò. Allora, noi avevamo undici dodici anni. Non è che si patisse la fame però ci si arrangiava come ragazzi a, insomma, a cercare dove, noi per esempio andavamo in queste ortaglie, che dicevo, a prendere, a rubare, a prendere le zucche, poi a fette le portavamo in questa casa di quattro piani, cumulo di macerie che vi ho descritto, c’era un fornaio e noi le portavamo quando il forno era spento però ancora caldo, portavamo le fette di zucca verso le tre, quattro del pomeriggio e poi le andavamo a prendere alle sette, alle otto, perché erano belle cotte e ce le mangiavamo. Ecco, questo per dire un particolare ma questo qui è un particolare ameno. Ma invece quello che ho detto che mi dà commozione ancora è questo. In Viale Certosa c’era tutto il filiare di platani. Ora, a un certo momento il comando tedesco aveva dato ordine di abbattere il platani, probabilmente non era, era per una questione di approvvigionamento di legna da ardere perché chiunque vi insegna che se c’è un filare di alberi e ci sono dei mezzi militari ci tengono a non abbatterli perché essendo nascosti dietro gli alberi gli aerei non li vedono. Perciò sarebbe stato assurdo un bel viale alberato, andare ad abbattere gli alberi quando, però abbiamo capito che era perché anche loro poveretti insoma c’avevano bisogno di legna da ardere. Bene. Particolare bellissimo, bellissimo, cioè noi arriviamo davanti a questo albero, noi siamo in due o tre amici che siamo lì a guardare abbattere l’albero con le borse della spesa in mano. C’è un tedesco con l’ascia che sta abbattendo l’albero. Ovviamente saltano via le schegge di legno, noi ragazzi raccogliavamo le schegge di legno per portarle a casa e accendere la stufa. Questo giovane tedesco, soldato tedesco, me lo ricordo ancora, faceva apposta a far fatica a fare le schegge più grosse per far in modo che noi, anziché le schegge piccole avessimo dei pezzi di legno più grossi da portar via, questa è una cosa che io, mentre la sto dicendo, mi sto commovendo, perché è una cosa che, niente, con questo io non sto difendendo il soldato tedesco tout court. No, per l’amor del cielo, eh, lungi da me, niente, sto riferendo un fatto mio personale che è molto, molto, molto importante. E il secondo fatto, e io ho già detto che nella mia famiglia, avete già capito le idee politiche quali potevano essere, però in quel momento, noi dobbiamo ricordare che negli anni ’40 eccetera, si era tutti infollarmati [sic], si era molto tutti, io ero un figlio della lupa, dico la verità, avevo la mia divisina anch’io, no, eccetera, e io mi ricorderò sempre un altro fatto importantissimo. Di fianco a noi, di fianco a questo convento delle suore c’era anche e c’è ancora un, diciamo, un ricovero eccetera, un’opera, dove erano ricoverati gli orfani, degli orfanelli, erano gli orfani di Padre Beccaro, esiste ancora eccetera. , Benissimo, a un certo momento c’era la scritta sopra, c’era scritto, ‘Opera derelitti di Padre Beccaro’. Derelitti è una parola italiana normale che vuol dire ‘abbandonati’, non è un’offesa, no? Bene. A un certo momento, arriva il Duce, arriva il Duce, tutto il rione in subbuglio, tutte, non tanto gli uomini perché erano al lavoro ma tutte le donne coi figli: ‘Arriva il Duce andiamo a vedere cosa farà questo Duce!’. Io me lo ricordo ancora adesso, come mi ricordo il tedesco là che faceva, io me lo ricordo ancora arrampicato su una scala, mia moglie, mia mamma eccetera, con le lacrime agli occhi insieme ad altri, io no perché io non capivo, perché io avrò avuto sei, sette anni, otto anni, quello che è, e avevano preparato, solo la parola, la parola ‘derelitti’ era stata tutta inbiancata. E lui, me lo ricordo, io chiudo gli occhi, me lo vedo ancora sulla scala, col pennello di vernice nera, che ha scritto ‘piccoli’, ‘Opera piccoli di Padre Beccaro’, ancora adesso se andate a vedere, c’è scritto ‘opera piccoli’ adesso fatta bene ovvio, aveva fatto togliere la parola ‘derelitti’ perché non voleva, ecco. Parliamo chiaro, è propaganda, cioè non sto dicendo che in quel momento lì il Duce si è svegliato una mattina e preso da un rimorso, ‘oh, io devo andare’, no, quello no, propaganda eccetera, però sono quelle cose che, cioè riflettendo adesso, dico ma, pensate un pochettino cosa può fare un regime per riuscire a imbonirsi eccetera, le persone. Oh, lì c’era una massa di donne che piangevano perché vedevano il Duce che stava scrivendo la parola ‘piccoli’ e infatti bisogna dire, è un fatto che non è riprovevole, anche encominabile perché insomma uno che tira via la parola ‘derelitti’ e ci mette ‘piccoli’, insomma tanto di cappello, giusto? Se l’avesse fatto un prete, sarebbe stata la stessa cosa. Ecco questo è il secondo fatto, diciamo così ameno, leggero che volevo mettere insieme al bombardamento.
ST: Ma, volevo chiederti, a scuola, com’era la vita a scuola durante la guerra, se avevano parlato di bombardamenti o vi parlavano della guerra in corso.
GD: No, dunque, allora devi pensare questo, io premesso, io un certo momento, nonostante le idee eccetera però si era presi dentro in un canale, io ero un figlio della lupa, avevo la mia bella divisina, ci tenevo a andare alla Scuola Pietro Micca di Via Gattamelata a fare le mie riunioni eccetera tutto così eccetera e non sono mai diventato Balilla perché siccome sono sfollato di modo ché non ho fatto in tempo. Io la terza, la quarta, la quinta l’ho fatta a Castelleone in quel di Cremona, perciò a un certo momento là per me la guerra non esisteva più, il fascio non esisteva più, cioè, ero ben lontano là, vivevo in mezzo ai campi contadini, per me insomma ormai, per me la vita era con le mucche, i tori, i cavalli eccetera eccetera, no, ecco. E perciò direi che mah, sì, io a un certo momento, più che la guerra in sé stesso, eccetera eccetera, ricordo due o tre fatti, proprio rapidissimi, così, per esempio, i fascisti scappano da Milano, c’erano i giovani della X Mas eccetera, eccetera, che mi ricordo che passavano da Viale Certosa, quel viale dove avevano abbattuto gli alberi e, io dico adesso alla mia età, con una paura addosso, perché chissà che paura avevano, erano, passavano coi camion, e sparavano sulle finestre perché non volevano che la gente si affacciasse a vedere che loro stavano scappando. Questo me lo ricordo perché casa mia, praticamente, Via Petitti è all’inizio era dopo c’era Viale Certosa perciò io da casa mia vedevo le case di Viale Certosa e quando sono passati sentendo il crepitio delle armi mi avevano detto ’Sì, sono i giovincelli del fascio che stanno sparando sulle finestre, perché probabilmente si vergognano per vedere che stavano scappando’. E invece l’altro fatto, l’altro fatto invece increscioso che mi ricordo, mi ricordo quello l’ho visto io,l’ho visto non visto fare ma visto dopo, quando hanno incominciato a fare le epurazioni che in Via Poliziano hanno preso la Ferida e Osvaldo Valenti, che erano i due attori, e a un certo momento li hanno fucilati lì sul marciapiede. Quella è stata una cosa che, ecco, io ricordo più, diciamo mi ha fatto più effetto il dopoguerra che la guerra, perché il dopoguerra per esempio c’era l’ingegner, faccio un nome, l’ingegner Gobbato. L’ingegnier Gobbato è un ingegnere dell’Alfa Romeo, bravissima persona, detto da mio padre, guardi, una cosa eccetera, ma era fascista, perché per forza, là tutti da un certo grado in sù, dai capi in sù dovevano essere per forza iscritti al fascio, perché altrimenti vivevano male, no? E a un certo momento si vede che qualcuno ce l’aveva su, dopo l’epurazione, a un certo momento l’hanno trovato in mezzo alla neve, fuori dell’Alfa Romeo, ammazzato eccetera, no? Ecco lì sono cose che si ricordano, si ricordano molto, molto, molto, molto, per far capire un pochetto cosa vuol dire cosa sono le, come si può dire, le vendette personali. E io posso dire che sotto di noi abitava un fascista. A un certo momento è stato preso e portato a San Vittore. Era una brava persona. Dopo un po’ di giorni è tornato a casa. Questo per dire che non era tanto perché uno avesse l’iscrizione al fascio o non al fascio, tutto dipendeva dall’indole della persona, una persona poteva essere malvagia o persona buona, e persona, e questo sono i vari ricordi. Oddio, questa è un’intervista che è partita con un tema ben preciso e cioè incursioni aeree eccetera eccetera, la RAF minga la RAF eccetera eccetera. Niente, potremmo farla un’altra, io ho aggiunto qualche particolare, potrei aggiungere altri particolari interessanti di vita bellica però su un altro tema, cioè il tema: vita bellica di un ragazzo eccetera eccetera. Si potrà fare un domani eccetera perché ci sono dei.
ST: Se vuoi anche ora.
GD: Degli altri, degli altri, ci sono degli altri avvenimenti importanti, per esempio, uno devo dirlo, devo dirlo perché.
ST: Racconta pure tutto quello che vuoi.
GD: E’ più forte di me. Allora, mio zio, anzi se la qui presente eccetera vuole anche con il telefonino filmare, riprendere un attimino quello che sto dicendo eccetera eccetera, mio zio era carrista sui carri armati M11 e diciamo zona di El Alamein, tanto per intenderci, carri armati M11 erano carri armati. L’M, avevano l’arma in torretta, poi furono trasformati in M13 con l’arma nello scafo, cioè praticamente fissa nello scafo, non nella torretta. Ovviamente con i carri armati inglesi bastava un colpo ben assestato che partiva via tutto, erano degli scatolini e io devo dire che mio zio era carrista, lui era capocarro a parte che a capocarro lì erano dentro in due o tre mi sembra, non è che come adesso sono dentro in cinque sei. E in una battaglia, mi ricorderò sempre, mi disse, stavano andando, a un certo momento colpiti da altri carri, a un certo momento un colpo tremendo, deve immaginare il frastuono tremendo eccetera eccetera tutto, a un certo momento, lui, il cannoniere era sopra di lui, lui era nello scafo, il cannoniere, e lui a un certo momento [screams] a cominciato a gridare, prende la gamba del cannoniere e gli dice, uè te, lo chiama per nome, cosa è successo, e gli è rimasto in mano la gamba. Praticamente il colpo aveva portato via la torretta, il cannoncino e mezzo cannoniere. Questo è stato il trauma di mio, al punto che mio zio è saltato fuori dal carro, si è spogliato, si è messo in mutande, si è messo con le mani alzate, e ha sperato che non ci fosse nessuno che lo colpisse. È stato fatto prigioniero. Ecco, questo non è per vigliaccheria, questo per dire come ci si trova. È stato fatto prigioniero, portato in Africa, bla, bla, bla, bla, tutto eccetera eccetera eccetera, rimpatriato, ehm, parte la nave, siluro, tutti mezzi morti, mio zio fortunamente aveva il mal di mare, era andato in coperta e si era addormentato su un rotolo di corde, giusto, e questo l’ha salvato perché è stato buttato a mare, è stato la bellezza di dodici ore a bagnomaria in acqua e poi è stato salvato dagli inglesi. Portato ancora in campo di concentramento, in Africa così, faceva il cuoco, stava benissimo, eccetera, eccetera. Precedentemente, voi dovete pensare che, per la sete, arrivavano a bere l’acqua dei radiatori del carro armato. Non gliene fregava niente se il carro armato poi si fermava, piuttosto che morire di sete bevevano l’acqua. E infatti mio zio poi dopo reduce a casa così, quando è deceduto, è deceduto anche perché aveva lo stomaco un po’. Ma il fatto invece bellissimo, bellissimo, uguale a uno di quelli che mi ricordo, è: io sono sfollato a Castelleone, ritorna mio zio reduce dalla prigionia, siamo in questo paese, la prima cosa che fece, mi ricordo guardi anche, me lo sento adesso, mi prende, mi porta fuori in campagna, c’era una roggia che si chiamava la Seriola, si chiama la Seriola, è un affluente del fiume Serio che incrocia sopra la Seriola, ci sono dei canali in cemento per portare l’acqua, eh cosa fanno, mica possono, allora facevano i canali, fanno i canali in cemento. E c’era uno di questi canali in cemento con dentro l’acqua corrente che se la Seriola era non so a diciotto gradi, lì l’acqua sarà stata a dodici gradi, forse a dieci. La soddisfazione di questa persona, reduce, arriva a casa, saluta i parenti, la prima cosa che fa, prende il Gianni, che ero io, andiamo in campagna, andiamo alla Seriola, ci spogliamo e in mutande dentro a bagnomaria nella corrente, a sentire quest’acqua fresca, fresca, freddissima, gelata. Io a un certo momento seguivo lo zio, e, cioè vabbè, non è che, mi piaceva, mi piaceva il fatto, non tanto perché io sentivo freddo ma io mi ricordo la soddisfazione di questo uomo a essere al suo paese, vivo, e immerso nell’acqua gelida, bella corrente, che avrà sognato non so per quanti anni, per quanti anni, per quanti anni. Bellissimo, bellissimo, sono dei fatti questi che sono, sono indimenticabili, indimenticabili, indimenticabili. E io torno a dire, la mia memoria ormai è quella che è: non mi ricordo quasi cosa ho mangiato a mezzogiorno, però questi fatti qui sono indelebili nella mia mente e mi fa tanto, tanto, tanto piacere perché io, come tutti i vecchi, chissà quante volte le ho già raccontate a Tizio, Caio, Sempronio, magari annoiandoli anche, mi fa piacere che questa volta così ho potuto lasciarli a una persona che magari ne può far tesoro, insieme ad altre testimonianze.
ST: Volevo farti un’ultimissima domanda.
GD: Sì. Dica.
ST: MI parlavi appunto dell’attivitò partigina di tuo papà. Lui in fabbrica era sabotatore quindi? Cosa?
GD: Sì, ah allora, [laughs], a un certo momento, dovete pensare anche questo: quando si parla di sabotaggio, sabotaggio non vuol dire mettere un ordigno esplosivo, far saltar per aria qualcosa eccetera. Sabotaggio c’è anche il sabotaggio intelligente. Il sabotaggio intelligente, che è molto pericoloso perché può essere frainteso come un finto sabotaggio. Cioè, lui essendo un capolinea perciò a un certo momento aveva anche una responsabilità verso gli operai, doveva stare attento anche che gli operai non facessero delle cavolate di loro iniziativa, però loro a un certo momento, se c’era, a un certo momento avevano capito che c’erano dei pezzi che facevano, che non c’entravano niente coi motori Alfa Romeo, erano dei pezzi che venivano fatti poi incellofanati tutti, oliati, eccetera, erano pezzi di V1, venivano mandati in Germania. E mi ricordo perché me ne portò a casa anche qualche dopo la guerra erano rimasti in magazzino, e mi diceva: ‘vedi, questi qui sono pezzi che facevamo per lavoro’, in modo che potete immaginare il controllo dei tedeschi come era, [makes a rhythmic noise], com’era pressante, no, eccetera, in modo che bisognava stare attenti di, se c’era da fare mille pezzi, cercare di farne ottocento, non cento, però ottocento, insomma duecento meno. Per fare questo, le macchine dovevano andare non troppo bene, però non potevano essere manomesse col dire ‘Ah io faccio bruciare il motore elettrico, la macchina non va più!’. No, deve essere sempre il solito bullone semisvitato, il solito dado che manca, il solito filo che si è spelato e ha fatto un po’, e non fa più contatto ma basta riagganciarlo e la macchina riparte, però intanto si perdono le ore, eccetera eccetera, ecco questo era stato fatto, questo mi raccontava che loro sabotaggio ne facevano, però era un sabotaggio, infatti non c’è mai stato in Alfa Romeo una rappresaglia e che erano curati perché, dovete pensare che uno degli azionisti dell’Alfa Romeo era Benito Mussolini, figuriamoci no. Eh, e questo è quello che mi raccontava dei sabotaggi che facevano quando si erano accorti che facevano i pezzi per la V1. E io li ho visti, bellissimi, tutti incartati in carta cellofan, tutto oliato, tutto per bene in scatolette, tutti, sì. Questo, ecco l’unica cosa di sabotaggio che posso dire è questo, altro non saprei. Abbiamo finito? Finito? Alla prossima puntata.
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Sara Troglio, “Interview with Giovanni Delfino,” IBCC Digital Archive, accessed December 12, 2024, https://ibccdigitalarchive.lincoln.ac.uk/omeka/collections/document/1173.
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