Interview with Giancarlo Savino
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Giancarlo Savino, born in Trieste 2 June 1933, is a university lecturer. Giancarlo Savino tells how the 24 October 1943 bombing did not, initially, cause alarm when the sirens on the Duomo bell tower and at Officine San Giorgio wailed at noon. For the first time, aircraft flew over Pistoia, and the same night flares lit up the city. He recalls the bombing and how his aunts and brother bolted to the Via delle Mura, below a sawmill, which was hit by five bombs. The following morning, he was evacuated to Casalguidi, then between Capraia Fiorentina and Limite sull’Arno at the home of some relatives. Their villa was then commandeered by Germans, so he settled with some peasants. He witnessed the Empoli bombing on 10 April 1944, the day after Easter.
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GS: Dei bombardamenti di Pistoia?
CR: Dei bombardamenti di Pistoia.
[parlano contemporaneamente]
CR: Se poi ricordi anche il primo o il secondo, quello che vuoi te.
GS: Sì, perché io a Pistoia ho subito soltanto il primo, dopo il primo sono sfollato tra Montelupo Fiorentino, cioè tra Capraia Fiorentina e Limite sull’Arno e ho assistito solo da vicino e da lontano ai bombardamenti di Empoli, il bombardamento di Pistoia invece lo ricordo – ricordo solo quello del 24 ottobre 1943, molto vivo, perché è avvenuto di notte ed è l’unico bombardamento che ho visto di notte [pausa] qualche preliminare: la mattina presto del 24 ottobre 1943 io tornai da Trieste, dove avevo passato le vacanze estive con i miei genitori e tornai entusiasta di accingermi alla nuova esperienza della scuola media, avevo dieci anni e mi preparavo ad affrontare la prima media, dopo aver sostenuto, si disse allora brillantemente, l’esame di ammissione. Avevo viaggiato tutta la notte, contento di tornare a Pistoia, nonostante io sia nato a Trieste e sia un triestino bastardo [pausa] sono vissuto fin dall’età di venti mesi a Pistoia e passavo le vacanze a Trieste più per dovere verso i miei genitori, pur amatissimi, che non per piacere, il cuore era a Pistoia dove ero vissuto, allevato da due zie [pausa] la mattina, nonostante avessi viaggiato la notte, non mi parve vero di raggiungere i miei compagni per raccontare le esperienze dell’estate e per farmi raccontare le loro, un luogo di raccolta era Via Attilio Frosini, in un cortile vicino a quelle vecchie case ancora oggi sopravvissute, in parte, alle undici della mattina suonò l’allarme –
CR: C’eravate abituati, penso.
GS: A cui eravamo abituati e non fece nessun effetto, tant’è vero che nessuno di noi si preoccupò di tornare a casa, né le persone di casa erano abituate a stare in pensiero che qualcosa del genere accadesse quando i ragazzi erano fuori, si diceva che ormai i bombardamenti erano sul finire e che certamente Pistoia non aveva nessuna qualifica che la rendesse appetibile ad un bombardamento.
CR: Questa è una cosa veramente diffusa, in tutti questi [incomprensibile] ‘Che voi che bombardano Pistoia?’
[parlano contemporaneamente]
GS: Devo dire che durante qualche allarme precedente il massimo del – della paura, il massimo degli effetti di un bombardamento era stato qualche tremare di vetri, quando si diceva bombardavano Genova, ma – io ricordo questo, ma mi sembra impossibile che bombardando Genova –
[parlano contemporaneamente]
CR: Però la gente diceva questo, bombardavano Genova e tremavano i vetri.
GS: Sì, sì, che tremassero i vetri, c’era però un ricordo, tragico in molti anche pistoiesi e anche in casa mia, dove una delle due zie nubili che mi hanno allevato aveva una casa a Pisa, quello del terribile bombardamento del 31 agosto precedente a mezzogiorno, anzi, al tocco, suonato l’allarme a mezzogiorno e bombardato al tocco, quando ci furono tanto di quei morti sotto la stazione che si preferì evitare di recuperarli e buttare una gettata di cemento sul sottopassaggio, c’erano questi ricordi ma a Pistoia s’era tranquilli che non sarebbe successo niente, comunque a mezzogiorno suonò l’allarme e ricordo di aver sentito il rumore di un aeroplano –
CR: Era suonato già altre volte l’allarme?
GS: Era suonato tante altre volte, tante altre volte, suonava con due sirene: quella del Duomo sul campanile e quella della San Giorgio, sia l’allarme sia il cessato allarme. Ricordo che quella mattina, dopo l’allarme di mezzogiorno, si udì il rumore di un aeroplano, si disse che era un ricognitore ma non ci si fece tanto caso, eravamo ragazzi di dieci, undici, dodici anni, facili ad assorbire anche i traumi dei forti rivolgimenti politici dei mesi precedenti, in pochi mesi si era passati dall’attesa del sabato per mettersi la montura da balilla – addirittura io ero anche vice caposquadra per un concorso vinto insieme ad altri vestiti meglio della scuola elementare presso il gruppo Pacini, tra Via Sant’Andrea e Via Santa e quindi mi fregiavo anche di questi – di questo distintivo, di questi gradi di vice caposquadra. Dicevo, questi rivolgimenti erano accaduti nel tempo molto breve dall’attesa di mettersi la montura al trauma della caduta di Mussolini, alla domanda sia pur rudimentale, come si possono fare dei bambini, ‘Ma allora era stato un grand’uomo o no?’, al ricordo dell’ansia con cui alla scuola elementare ci portavano a sentire il bollettino del Gran quartier generale delle Forze armate, la fiducia sconfinata nella vittoria dell’Asse, l’ammirazione per l’esercito tedesco, le voci che si era tradito l’alleato tedesco, la ironia sui liberatori, anche attraverso il nome di alcuni aeroplani americani [incomprensibile] una gran confusione nella testa, però rimasta in superficie, ci interessava giocare, giocare ai banditi, a rimpiattino e per me che abitavo, si diceva allora, alla barriera, luogo di ritrovo era appunto i Ferrovieri alla stazione, lì in Via Attilio Frosini e poi davanti a casa dove c’era un grosso marciapiede, un’edicola già, le cui proprietarie sono ora proprietarie della rivendita di giornali lì a San Filippo, ancora mamma e figliola e due distributori di benzina dietro i quali ci si rimpiattava per giocare a nascondino, comunque, tornando a quella mattina, non si fece molto – non si fece nessun caso anche al rumore di questo aeroplano che noi immaginammo fosse un ricognitore, ricordo però con chiarezza questo rumore dal cielo.
CR: Ma c’eravate abituate a questa –
[parlano contemporaneamente]
GS: No, fu una novità, questa fu una novità, gli aeroplani io non ricordo che fossero mai passati sopra Pistoia o per lo meno se ci passarono o io non me lo ricordo o io non ho memoria che ne siano passati e io non l’abbia saputo o l’abbia saputo dopo. Il resto della giornata passò normalmente, la sera si andò a letto alla nostra solita ora, in casa mia si dormiva poco, già, perché c’erano due camere: in una camera dormivano le due zie sorelle e in un’altra camera contigua dormiva la nonna già vicina agli ottant’anni, mamma di queste due sorelle e mamma di mia madre, io dormivo un po’ con la nonna e un po’ con le zie, ma siccome una delle due zie era cardiopatica, stava sveglia quasi tutta la notte e si stava spesso la notte a chiacchierare, a cogliere i dati salienti della sera come il trotto di un cavallo che annunciava l’arrivo del treno, o da Firenze o da Lucca, oppure un fastidio giudicato allora insopportabile: il soldato sentinella alla caserma Umberto che all’entrata e all’uscita di colleghi ufficiali si metteva sull’attenti e salutava e nel ricomporsi, nel riposo, picchiava sulla pedana, ecco, dice ‘Non si può dormire, non si può riposare dal rumore che fa questo soldato’, cosa fosse rispetto al traffico di oggi, comunque io mi addormentai per il primo sonno. Era presente in casa anche il fratello maggiore che aveva proprio quell’anno completato gli studi di ragioneria, fratello maggiore di me di nove anni, che aveva passato soltanto gli anni del suo – della sua scuola superiore, l’Istituto tecnico Pacini a Pistoia e che dormiva anche lui in questa casa, in un’altra stanza, prima delle due camere. Verso le undici io fui svegliato dalla zia insonne e furono svegliati tutti gli altri, c’è un’illuminazione a giorno ed ebbi proprio la sensazione che fosse mezzogiorno, ci si alzò, senza avere nessuna sensazione di pericolo immediato, ci si affacciò alla finestra e si vide il cielo illuminato dai bengala e un rumore sordo di aeroplani. L’altra zia più anziana dichiarò che non era assolutamente il caso di muoversi, perché non percepì nessuna sensazione di pericolo e si rimase tranquilli in un primo tempo anche noi, finché svegliatosi anche il mio fratello maggiore, ormai diciannovenne, allarmò subito tutta la casa, tutta la famiglia, che non c’era un minuto da perdere, perché era imminente il bombardamento, anzi, si vede già informato, o presuntivamente informato, dichiarò che essendo notte dovevano essere senz’altro gli inglesi e non gli americani, i quali inglesi avrebbero aspettato un po’ di tempo prima di sganciare che la popolazione si fosse rifugiata –
CR: Come mai il tu fratello sapeva queste cose?
GS: Lui le sapeva, perché insomma era un ragazzo già grande, un ragazzo già informato, che leggeva i giornali, addirittura anche impegnato, diciamo politicamente, ecco questa forma di cavalleria veniva – questo non fu certo il sentimento di quel momento, è per rispondere a questa tua domanda – giudicata come un aspetto della mollezza di questo nemico ecco, che rappresentava un mondo vecchio, superato e degno di essere abbattuto dalla nouvelle vague, non si sarebbe potuto dire allora ‘nouvelle vague’, nuova ondata del popolo, quello che resuscitato dalla grandezza di Roma avrebbe meritato il recupero del Mediterraneo e il dominio dell’Europa, comunque disse che non c’era un momento da perdere, anzi, ci disse ‘Scappiamo, subito’. Le – allarmate, le zie si preoccuparono del bambino, cioè di me e mi intimarono di scendere subito, appena vestito e di correre in Via delle Mura, nella segheria di Argante, a metà pressappoco di Via delle Mura, proprio sotto la terza muraglia di Pistoia, in quella sezione sopravvissuta, ma le zie e anche la nonna, che nonostante l’età era molto vigorosa e attiva e padrona assoluta della casa, furono pronte rapidamente e senza prendere niente di quello che si giudicasse prezioso e degno di esser serbato, ci si precipitò per le scale e si scese per la strada. Per la strada si incontrò un fuggi fuggi di persone e vidi che vicino alla caserma c’erano alcuni militi della milizia territoriale che col fucile sparavano in aria, evidentemente cercando di colpire qualche aeroplano e proprio quando io fui di strada cominciò il bombardamento, ma non ebbi la sensazione di grossi boati, ma diciamo rumori sproporzionati, diciamo per difetto, rispetto a quelli che io avrei immaginato fossero i fragori di una bomba che cade, anche se io mi trovavo nell’occhio de ciclone, cosiddetto, quello che si chiama, riferendosi all’occhio del ciclone, il punto più infuocato, anche se invece in realtà è proprio il contrario. Ecco, mi ricordo la zia, quella che aveva la direzione della famiglia, la mente, perché una delle due era la mente e l’altra il braccio, mi diceva ‘Corri, corri Giancarlo, corri’ ed io mi misi a correre ed ebbi nel correre una immediata sensazione di terrore, terrore non tanto dal frastore delle bombe, ripeto, quando dall’illuminazione. Io mi sentii esposto ad esser colpito da qualunque distanza e a discrezione di chiunque, mentre io correvo una delle zie cadde, al principio dell’Arcadia, al principio di Via delle Mura. Seppi poi che questi soldati tedeschi provenivano da una colonna motorizzata di passaggio da Piazza Garibaldi, proprio alcuni minuti prima o contemporaneamente all’arrivo degli aeroplani. Arrivato sulla porta di questa segheria, che era il rifugio che già sapevamo essere a nostra disposizione in caso di pericolo, aspettai che fossero arrivati anche gli altri familiari e solo dopo che ebbi l’assicurazione che eravamo tutti entrai all’interno. Varcata la soglia della porta, c’era una discesa verso un sotterraneo.
CR: C’eravate mai stati in questo rifugio?
GS: Mai, non c’ero mai stato e all’arrivo era già pieno.
CR: Scusa, non c’eravate mai stati per scelta vostra o perché non c’era stata occasione?
GS: Perché non c’era stata occasione.
[parlano contemporaneamente]
GS: Questo rifugio era un po’ come – insomma, c’era, come c’era il capofam – il capofabbricato, come c’era –
[parlano contemporaneamente]
GS: Come c’era [incomprensibile] dell’UNPA, Unione Nazionale Protezione Antiaerea, qualche cosa che era doveroso segnalare anche con una segnaletica esterna ma di cui si era certi non avremmo mai fatto uso, non avremmo mai avuto bisogno, trovai questo rifugio già pieno e, come ti ho già anticipato, ricordo un coro ‘Gesù, Giuseppe e Maria assisteteci nell’ultima agonia’.
CR: Tutti insieme eh?
GS: Tutti insieme o per lo meno questo è il mio ricordo.
[parlano contemporaneamente]
GS: Il mio ricordo prevalente è di questa nenia e ricordo anche l’incertezza di mio fratello, che era presentissimo in quel momento, sull’opportunità di restare vicino l’uscita o di addentrarci nella profondità del rifugio che era molto ampio, perché osservò che la vicinanza all’uscita ci rendeva più vicino alla superficie e quindi più esposti al bombardamento di quanto fossimo nella profondità del sottosuolo, ma ci preservava più facilmente dalla morte del topo, che era quella di cui avevamo più paura, ecco. Restammo in questo rifugio su cui piovvero cinque bombe e allora il fragore fu veramente grande, naturalmente per tutta la durata del bombardamento e solo molto più tardi di quando si fossero allontanati gli aeroplani suonò il cessato allarme e si uscì con l’incertezza che questo cessato allarme fosse una formalità, perché gli aeroplani fossero già lì vicini per bombardare un’altra volta e si tornò a casa. Arrivati lì alla barriera si vide la città devastata, una grossa buca di una bomba in mezzo alla strada, le due case che costituivano il confine, come dire, di quel cancello che non c’era già più ma che costituiva la porta barriera, erano state distrutte, danneggiato l’albergo Giappone –
CR: Che c’era già anche allora –
GS: Che c’era già anche allora e – anzi, la figlia del proprietario era una mia amica d’infanzia – fili della luce abbattuti e la città illuminata da un grande rogo della fabbrica del Giannini che era vicino alla stazione e altre fiamme dalla San Giorgio, si ritornò in casa dove si trovarono i vetri rotti, le cale dissestate, anche se la nostra casa, pur essendo vicina alla caserma già colpita severamente e agli altri obiettivi già colpiti, era quella in migliori condizioni e ricordo un’osservazione delle zie, si diceva che essendo il nostro numero di casa il diciassette, in caso di bombardamento sarebbe stata la prima casa colpita essendo dotata di un numero sfortunato –
[parlano contemporaneamente]
CR: Ma ci credevano davvero?
GS: Sì, sì, sì, sì, perché erano persone religiosissime e superstiziose come molte persone religiose, specie di quelle generazioni e fu l’osservazione che naturalmente – che nonostante il numero diciassette era la casa in condizioni migliori di quelle che si erano viste uscendo dal rifugio, anche se si trovò tutto all’aria, quindi calcinacci, vetri. Il primo pensiero fu quello di gannare [?] le cose più importanti e di far allontanare le persone che più premevano della famiglia, cioè il più piccolo e il più vecchio, il nipotino più piccolo e la nonna, senza frapporre indugi. Erano ormai, fra una cosa e l’altra, le cinque della mattina, ci si mise in cammino io e la nonna per andare a Casalguidi a piedi. Dunque, la nonna era del ‘63, quindi trentasette più quarantatré, ottant’anni esatti, compiuti, di marzo, era nata di marzo [sorride] e mentre le zie erano lì a radunare qualche cosa aiutate da mio fratello Luciano, io e la nonna a piedi con qualche cosa, io ricordo con la penna stilografica, l’unica cosa che mi premeva salvare, era già una nevrosi delle penne stilografiche, già a quei tempi – ci si mise in cammino e per arrivare al Ponte dell’Arca e immetterci nella Via Bonellina si attraversò la zona più devastata e fu veramente un’immagine straziante –
CR: E c’era gente –
GS: C’era gente per la strada, c’era disperazione e soprattutto c’erano lamenti che venivano dalle macerie e noi eravamo in grande pena per i nostri amici che sarebbero stati tutti parenti del babbo della Carla Romagnoli. Il babbo era stato deportato in Germania, preso nella caserma Umberto Primo, non gli aveva servito neanche il suo passato, diciamo patetico, di fascista com’erano tutti o molti, era sergente nell’esercito e ufficiale nella milizia, era stato deportato, ma prima di andar via aveva consigliato la mamma, una vecchia signora presso la quale io da bambino stavo a giornate intere, anzi che mi portava anche a spasso al cimitero, per me era una delle cose più –
CR: Una cosa in comune, anch’io la mia zia –
GS: Più divertenti, vedere le varie sistemazioni delle tombe, i lumini – diciamo aveva consigliato la mamma – la moglie, con una bambina di venti mesi e un bambino di venti giorni – di trasferirsi in Via Carratica, dalla mamma, dal babbo e dalla sorella della moglie. Venivano a trovarci e ricordo però che la zia disse che li avevano visti anche il giorno prima perché avevano lasciato diciamo casa completa al piano superiore dove stavamo noi, io stavo al 17 di Via Atto Vannucci, ora è il 45, allora era il 17, al secondo piano, al terzo piano – la casa non aveva ancora il quarto piano che è stato rialzato nel dopoguerra – stavano questi signori, che erano in grande confidenza con le mie zie, anzi, questa signora, la mamma del povero Oscar Romagnoli dava alla zia mia del tu precedendone del lei, era stata sua maestra di cucito addirittura di cucito credo, qualcosa del genere e andò via la sera che dopodiché ci fu il bombardamento dicendo ‘Arrivederci se ci si rivede’ e fu tenuto non come una battuta. Dopo, ma come un presentimento, c’era stata la – l’accordo che in caso di allarme e se ci si fosse dovuti rivedere in occasione di un allarme, ci si trovasse tutti al rifugio di Argante, ma si seppe dopo da dei sopravvissuti che la sorella nubile della moglie di Oscar, la cognata, aveva consigliato di non arrivare fino al rifugio e aveva preferito rimanere in casa e erano restati tutti in casa e ricordo ancora qualche giorno dopo, tornato a Pistoia, quando scavavano e raccontavano di aver sentito i lamenti del bambino che fu l’ultimo a morire – ma morirono credo in tredici in quella casa – fino ad affievolirsi. Comunque quella mattina noi si andò a Casalguidi dove si raggiunse una casa colonica abitata da dei lontani parenti, i Noci, quelli della rubinetteria davanti alla posta, che sono parenti miei alla lontana da parte della nonna e rimasi lì un paio di giorni fino a quando con un calesse, con un barroccio, fummo riportati a Pistoia per prendere le nostre cose e prepararci allo sfollamento. Ecco, ci si domandò dove rifugiarci e lo spavento era grande, a Casalguidi non potevano ospitarci a lungo e ricordo che la zia allora decise di approfittare dell’ospitalità di certi signori amici fin dall’infanzia che avevano una grande tenuta lì tra Capraia Fiorentina e Limite sull’Arno, dove certamente saremmo stati ospitati, cosa che accadde,
ma per tornare al bombardamento, ancora, io ritornai a Pistoia un paio di giorni dopo da Casalguidi e incontrai gli amici e naturalmente si deplorò che gli inglesi avessero massacrato la popolazione civile –
CR: Ecco, c’era questo –
GS: Sì, sì, sì, sì, sì e si sperò in una rivincita ecco, che gli italiani e i tedeschi dessero presto pan per focaccia, però questi erano i discorsi che si facevano soltanto noi ragazzi, non ricordo niente dei ragazzi –
[parlano contemporaneamente]
GS: Degli adulti no, perché sai in casa mia c’era un ambiente di donne, donne nubili, persone che dicevano il rosario la sera, giocavano a briscola e parlavano di più e del meno, in casa nostra circolavano le solite barzellette sul duce, sul fascismo, ma che venivano pronunciate più per passare il tempo che per altro, diciamo la politica non era entrata in casa, mio fratello sì, perché era rimasto diciamo quasi plagiato da un preside fascistone di allora e aveva le prime collaborazioni – un ragazzo di diciannov’anni – teneva una rubrica di cinema sul Ferruccio. Si riuscì dopo qualche giorno a scrivere e a ricevere posta dai miei di Trieste, dopo averli rassicurati che eravamo tutti in salute e la mamma reclamò ancora il fratello, che tornò a Trieste e poi rimase là.
CR: Ti volevo chiedere una cosa, se tu hai – fisicamente, ecco, ti ricordi cosa si provava, cioè qual è la sensazione fisica mentre tu sei lì con le bombe e tu rischi che le bombe ti cadano addosso?
GS: Per la prima volta in vita mia una sensazione di morte imminente. Da bambini un foglio attaccato al muro – un necrologio attaccato al muro non ci fa nessun effetto, il racconto di una morte o di una malattia grave non ci fa effetto, perché si pensa che la morte e la malattia tocchino solo agli altri, ai più grandi, ebbi per la prima volta una sensazione di morte imminente, una sensazione di morte che non ho avuto neppure quando ho subito il cannoneggiamento e mi son visto anche morire anche le persone vicino, ma quella volta sì e [incomprensibile] di pregare, io che poi non sono mai stato – comunque il bisogno di raccomandarsi al Padre eterno.
CR: Ma fisicamente chiusura di stomaco o –
GS: No, no, niente, nessuna sensazione, solo tremito e soprattutto un senso di sgomento, non tanto diretto quanto indiretto, nel vedere sgomenti, piangenti e impotenti gli adulti, perché il bambino sta tranquillo finché vede tranquilli gli adulti, ma quando li vede piangere –
CR: Ecco, c’era gente che piangeva?
GS: C’era gente che piangeva sì e diciamo scene isteriche.
CR: Davvero? Pianti e –
GS: Sì, pianti e grida sì, questo sì.
CR: Senti, si è continuato dopo a parlare dei bombardamenti? C’è stato un periodo in cui nel dopoguerra c’è stata una rimozione o, invece, nella tua esperienza si è continuato a riraccontare –
GS: Sì, si è continuato dopo a parlarne, specialmente del bombardamento del 18 gennaio 1944 che fu l’ultimo, assai forte, ma che procurò solo un morto in Piazza San Francesco mi sembra, ma chiodo schiaccia chiodo e l’immagine del bombardamento fu rimossa dall’immagine del cannoneggiamento e della guerra, specialmente in chi, come me e i miei, fummo sulla linea dell’Arno per diversi mesi assistenti di una guerra di posizione.
CR: E tu l’hai mai raccontato? Per esempio, a Giovanni ti è mai venuto di raccontare questa esperienza del bombardamento?
GS: Sì, gliel’ho raccontato sì, ma a Giovanni gli ho raccontato qualche volta ma è stato per lui come vedere un film, anche per la Maria è stato come vedere un film.
CR: Io il racconto del mio babbo me lo ricordo, cioè la domenica mattina inevitabilmente andavo nel lettone e lui mi raccontava in Russia, sempre il solito racconto, però c’era questa presenza ricorrente, forse la generazione venuta dopo di me non l’ha più sentito raccontare –
GS: Comunque l’immagine più paurosa è quella della città illuminata, cioè di un evento contro natura, cioè all’undici di sera la città non può essere illuminata in quel modo, ecco, è un po’ un paragone non calzante e neanche pertinente, la paura determinata dall’assurdo dell’eclissi di sole, cioè che cos’è che impaurisce? Il buio, il buio di giorno e veramente si sarebbe trovato un ago per terra, con questi aeroplani che avevano però un rumore che quasi faceva massa, un rumore ricordo all’unisono, in attesa.
CR: Ti ha lasciato qualcosa quest’esperienza o no? Poi dopo è passata e niente, non è che è un ricordo fisso, ricorrente?
GS: No, no, no, no.
CR: Poi dieci anni penso sia un’età –
GS: Sì, son pochi ecco, diciamo gli orrori della guerra – questo indipendentemente dalla mia eventuale cultura e dalle mie letture – come esperienza diretta è soltanto un senso di confusione politica tra virgolette, come può essere politico per un ragazzo di quindici anni, non sapevo più chi avesse ragione.
CR: [incomprensibile]
GS: Nel giro di sei mesi da fascisti si diventò agnostici e socialisti e comunisti.
CR: E tu l’avvertivi questo [incomprensibile]?
GS: Sì, sì, sì, poi tra i signori che ci ospitavano c’era anche il Comandante dei corazzieri del Re, poi diventato Comandante dei corazzieri del Presidente della Repubblica, per cui c’era un miscuglio tra fascismo, monarchia, tradimento, tedeschi, partigiani, erano tutte figure come le carte da gioco, sai, che si rigirano. I fascisti erano diciamo le persone oneste e i delinquenti, il Re era l’avallatore del duce e quello che avea salvato l’Italia, l’esercito era traditore e tradito, i partigiani erano patrioti e banditi, i tedeschi erano gli usurpatori e i traditi, quindi un miscuglio culturale che io annegai in un primo tempo in un relativo benessere come ragazzo ammesso a corte dai diversi signori, anche con delle sofferenze di carattere sociale, perché da lì nel ‘44, ‘45, dopo aver dato l’esame da prima a seconda media come privatista – la feci da me la prima media, a Quarrata – frequentai la scuola media di Empoli, la seconda media e tutte le mattine facevo sei chilometri per andare a scuola, sei chilometri a andare e sei chilometri a tornare attraversando l’Arno su una barca. Una delle signorine di questa famiglia, mia quasi coetanea, un anno più di me, faceva la terza media, io la seconda e lei la terza, ma io andavo a piedi e lei in calesse, col cavallo e ricordo che i familiari dicevano quando mi vedevano partire e tornare ‘Se gli resistono le gambe a quel ragazzo, si irrobustirà’, però ricordo anche di aver assistito a dei mitragliamenti, a dei bombardamenti molto paurosi, anche se non mi impedivano di andare a scuola, ecco. Strano, ci penso ora per la prima volta, avevo il terrore del bombardamento e del mitragliamento ma non ho mai usato come pretesto per non andare a scuola e non ho mai fatto tardi a scuola nemmeno un giorno.
CR: Incredibile.
GS: Vedevo che all’avvicinarsi, non so, di un aeroplano che mitragliava io mi sdraiavo in un campo e passava questo calesse che fuggiva –
CR: Eran frequenti questi mitragliamenti?
GS: Sì, sì, c’era l’Arno che divideva Empoli dalla zona in cui ero io.
CR: Ma sparavano sulle truppe?
GS: Ma sparavano anche a casaccio.
CR: Anche solo per terrorizzare.
GS: Sì, sì, sì e poi ho assistito al terribile bombardamento di Empoli del lunedì di Pasqua del ‘44, era il lunedì di Pasqua, me lo ricordo il giorno.
CR: E anche lì hai avuto le solite [incomprensibile] rifugio o no?
GS: No, niente, nulla, preso – ero nell’immediata periferia e allora vedevo proprio l’aeroplani, le bombe, tutto quello che non avevo visto la notte a Pistoia allora li vidi.
CR: Vi buttaste giù –
GS: Per terra, sì, in un campo e dalla paura mi venne un’eruzione sulla pelle.
CR: Sì?
GS: Sì.
CR: Ti ricordi fosse un’esperienza comune o no, questa di eruzioni –
GS: Sì, sì, sì, venne anche ad altri e poi passai il resto diciamo dell’emergenza, cioè il periodo del diciamo preliminare al passaggio dell’Arno da parte degli angloamericani, rifugiato in una casa di contadini lontano dalla villa nella cui foresteria io abitavo. La villa era stata occupata dai tedeschi, ci avevano fatto un ospedale militare e vissi diciamo il momento della fuga dei tedeschi e l’arrivo degli angloamericani in una casa di contadini dove eravamo circa centocinquanta persone e ricordo di aver visto una donna partorire, di aver visto persone morire, ma non fu traumatico, fu più traumatico invece – fu più traumatica la morte di un bambino di un anno e mezzo di meningite perché lo vidi trasformato, trasfigurato e ricordo era il primo bambino del Comandante dei corazzieri, Alessandro, sepolto là e ricordo del nonno di questo bambino che aveva attraversato l’Arno a piedi, aveva attraversato le linee per cercare un flacone di penicillina.
CR: Perché la gente si era fatta un’esperienza dei bombardamenti? Cioè sapeva quelli sono americani, quelli sono inglesi?
GS: Gli americani di giorno e gli inglesi di notte.
[parlano contemporaneamente]
CR: Un po’ di empiria dei bombardamenti, via.
GS: Sì, sì, poi gli inglesi diciamo più pazienti a cercare l’obiettivo, gli americani il bombardamento a tappeto, quasi uno sport del bombardare.
CR: Forse più ricchi di materiale.
GS: Sì, sì e penso anche che questo corrispondesse alla realtà.
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